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massima

CORTE DI CASSAZIONE 
SEZ. L       SENT.  9164  DEL 15/09/1997
PRES. Pontrandolfi P.             REL. Vigolo L.
PM. Leo A.  (Conf.)
RIC. Pennazzi (avv. Muggia)
RES. S.E.R.S. S.r.l. (avv. Medina)
conferma trib. Ravenna 27 giugno 1994

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto 15 gennaio 199 1, il Sig. Vanni Penazzi ricorreva al Pretore - giudice del lavoro di Ravenna nei confronti della propria ex datrice di lavoro Seres s.p.a., dalla quale era stato assunto a tempo determinato, come marinaio, una prima volta, con convenzione di arruolamento a bordo della nave R/E Gladiator stipulata presso la Capitaneria di porto di Ravenna in data 26 ottobre 1990 con termine al 2 novembre successivo, oltre il quale tuttavia il rapporto era proseguito sino al 20 novembre 1990 (data dello sbarco) e, una seconda volta, con convenzione di arruolamento a bordo della nave R/E Asterix stipulata a tempo indeterminato in data 1º dicembre 1990. Quest'ultimo rapporto era cessato per sbarco di ufficio disposto dalla società che aveva così inteso risolverlo nel corso del periodo di prova. Sostenendo, quindi, che il primo rapporto a termine si era automaticamente trasformato in rapporto di lavoro a tempo indeterminato ai sensi della legge 18 aprile 1962, n. 230, in forza del rinvio di cui all'art. 1 cod. nav., talché il licenziamento era illegittimo perché privo di giusta causa e di giustificato motivo, a norma delle leggi 15 luglio 1966, n. 604 e 20 maggio 1970, n. 300; e sostenendo, altresì, che anche il secondo recesso in data 27 dicembre 1990 era privo di giusta causa ed era illegittimo, ai sensi dell'art. 2096 c. civ., perché il patto di prova non era previsto nella convenzione di arruolamento, mentre avrebbe dovuto essere ad substantiam stipulato per iscritto, il Penazzi chiedeva di essere reintegrato nel posto del lavoro e di essere risarcito del danno.
Con sentenza in data 17/21 settembre 1991, il Pretore rigettava la domanda e il Tribunale - Sezione del lavoro della stessa sede, con sentenza in data 16/27 giugno 1994, rigettava l'appello del lavoratore e compensava le spese.
Per la cassazione della pronuncia di secondo grado ricorre il lavoratore affidandosi ad unico motivo illustrato con memoria. Resiste la società con controricorso e memoria illustrativa.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con l'unico motivo di annullamento, il lavoratore deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2096 c. civ. in relazione all'art. 1 cod. nav. e nega che le norme collettive di diritto comune possano equipararsi a quelle di diritto corporativo, efficaci erga omnes, e possano costituire fonte di diritto a norma dell'art. 1 cod. nav., come avrebbe contraddittoriamente ritenuto il giudice di appello, il quale aveva pur riconosciuto, in linea di principio, il diverso valore giuridico degli attuali contratti collettivi rispetto a quelli corporativi e la efficacia non erga omnes dei primi. Il ricorrente sostiene, pertanto, che il patto di prova, regolato dall'art. 2096 c. civ., richiede la forma scritta a pena di nullità; tale norma non era derogata dall'art. 4 del contratto collettivo, che non escludeva in modo esplicito la necessità della forma scritta e mutuava dal codice civile un istituto non previsto dal codice della navigazione; inoltre, esso avrebbe preso in considerazione il patto al solo fine della durata della prova. Il ricorrente censura la sentenza impugnata anche perché su quest'ultima questione il Tribunale aveva omesso di motivare, così come non aveva motivato in punto di non cumulabilità dei periodi lavorativi.
Il motivo è infondato.
Il giudice di appello ha ritenuto che il patto di prova contenuto nella seconda convenzione fosse valido perché le parti si erano riferite al contratto collettivo e questo prevedeva, come obbligatorio, il periodo di prova. Lo stesso contratto collettivo, pur non efficace erga omnes, a differenza di quelli corporativi, era tuttavia fonte regolatrice del rapporto, prevalente, a norma dell'art. 1 cod. nav., sulle disposizioni del codice civile.
Rileva la Corte come, per generale insegnamento della dottrina e della giurisprudenza (cfr., in particolare Cass. 23 aprile 1991, n. 4386, con ampi riferimenti alla relazione del Guardasigilli), l'art. 1 del codice della navigazione configuri un sistema di fonti del diritto: tale da conferire alla disciplina della navigazione marittima, interna ed aerea, le caratteristiche di corpus in larga misura autonomo (principio di specialità) rispetto al diritto civile. Detto articolo prevede, infatti, al comma primo, la applicazione in materia di navigazione, anzitutto, delle norme dello stesso codice della navigazione, e quindi delle leggi, dei regolamenti, delle norme corporative e degli usi attinenti alla stessa materia. Il carattere di tendenziale compiutezza e di specialità della disciplina è accentuato, poi, dal comma secondo dello stesso articolo il quale impone il ricorso all'analogia (generalmente intesa, in tale contesto, come analogia legis), ove manchino disposizioni di immediata applicabilità proprie del diritto della navigazione, ad altre disposizioni di tale sistema e, solo nel caso in cui rimanga non individuata la regula iuris del caso concreto, dispone che debba applicarsi il diritto civile.
Circa la forma del patto di prova nel contratto di lavoro marittimo, non vi sono disposizioni specifiche di settore. Peraltro, in linea generale, può osservarsi come l'obbligo di rivestire di una forma particolare talune espressioni dell'autonomia negoziale costituisca eccezione al generalissimo principio di diritto privato della libertà di forma; pertanto, non può ravvisarsi una lacuna in un sistema normativo particolare che, come nel caso del diritto della navigazione, non detti disposizioni specifiche sulla forma da adottarsi per talune clausole contrattuali e, così, nulla dica circa la forma di stipulazione del patto di prova.
Vero è che nel diritto del lavoro generale esiste una evidente tendenza del legislatore a privilegiare la stabilità del rapporto lavorativo, tanto che particolari prescrizioni e limitazioni sussistono per il rapporto a termine (del quale costituiscono una sottospecie anche il contratto di apprendistato e quello di formazione e lavoro) e, in generale, per le ipotesi di risoluzione anticipata del rapporto e quindi anche per il patto di prova che, indubbiamente, comporta siffatta eventualità (in dottrina prevale l'opinione che il patto di prova costituisca una condizione risolutiva del rapporto, anche se non sono mancate autorevoli, più complesse, ricostruzioni dogmatiche che, distinguendo l'iniziale, provvisorio periodo del rapporto, da quello successivo, a carattere definitivo, hanno variamente richiamato e collegato tra loro gli schemi del termine finale incerto, della condizione sospensiva potestativa, e del termine iniziale incerto).
Così, l'art. 4 del r.d.l. 13 novembre 1924, n. 1825 (recante disposizioni relative al contratto di impiego) disponeva (comma primo) che "ove sia stato stipulato all'atto dell'assunzione dell'impiegato un periodo di prova, questo dovrà risultare da atto scritto" e che (comma terzo) "in mancanza di atto scritto l'assunzione si presume fatta a tempo indeterminato".
Gli artt. XI ("ogni contratto collettivo di lavoro, sotto pena di nullità, deve contenere norme precise [...] sul periodo di prova [...]") e XX della Carta del lavoro, invece, considerarono normale lo svolgimento di un periodo di prova nelle nuove assunzioni e tale orientamento (che, secondo la relazione del Guardasigilli dell'epoca, e la giurisprudenza di questa Corte in essa richiamata, aveva anche valore immediatamente precettivo) trovò attuazione nell'art. 8 del r.d. 6 maggio 1928, n. 1251 ("Nessun contratto collettivo di lavoro può essere pubblicato ove non contenga norme precise [...] sul periodo di prova").
Tale sistema di obbligatorietà ed automaticità (nel contratto individuale) venne poi abbandonato dal codice civile che, con l'art. 2096 ha previsto, solo in quanto eventuale, il patto di prova, prescrivendone la forma scritta ad substantiam (nello stesso senso, v. anche l'art. 9 della legge 12 gennaio 1955, n. 25 - Disciplina dell'apprendistato); soltanto nell'ambito del rapporto di lavoro domestico vi è nel codice civile la presunzione del patto di prova per i primi otto giorni (art. 2241 c. civ.), talché essendo il periodo di prova previsto direttamente dalla legge, anziché da una specifica disposizione pattizia, nessun obbligo di forma può logicamente venire in considerazione ed alcuna prescrizione di forma è contenuta neppure nella legge 2 aprile 1958, n. 339 (Per la tutela del lavoro domestico) che pur prevede implicitamente (art. 5) l'eventualità di una specifica determinazione pattizia della durata del periodo di prova laddove ne indica la durata massima consentita.
Le considerazioni appena svolte, tuttavia, non sono tali da indurre a ritenere l'esistenza di un principio generale di diritto (come tale valido, ai fini dell'eventuale ricorso alla analogia iuris, ed espresso, in ipotesi, dall'art. 2096 primo comma c. civ.) secondo cui il patto di prova debba necessariamente essere stipulato con un atto formale (si noti, oltretutto, che lo stesso art. 2096 ha fatto salva l'eventuale diversa disposizione prevista dalle norme corporative).
In realtà, la ragione per la quale il codice della navigazione nulla dispone in ordine alla forma del patto di prova può agevolmente individuarsi nella circostanza che, in linea generale, lo stesso contratto di lavoro marittimo è assoggettato alla forma dell'atto pubblico (fauno eccezione l'arruolamento in località estera non sede di autorità consolare, per il quale è sufficiente l'atto scritto alla presenza di due testimoni, e l'arruolamento per le navi minori di stazza lorda non superiore a cinque tonnellate, che può stipularsi anche oralmente: art. 329 e seg. c. nav.; mentre l'arruolamento del comandante in luogo ove non si trova l'armatore si perfeziona per mezzo di dichiarazioni delle parti distintamente rese, nei luoghi ove rispettivamente si trovano, alle autorità marittime o consolari, con la precisazione che quella dell'armatore deve contenere le stesse indicazioni prescritte per l'atto pubblico stipulato interpresentes: artt. 330 c. nav.).
Dispone, infatti, in termini generali, l'art. 328 c. nav. (comma primo) che "il contratto di arruolamento de ve, a pena di nullità essere fatto per atto pubblico [...] dall'autorità marittima e, all'estero, dall'autorità consolare" e che (comma terzo) "prima della sottoscrizione, il contratto deve essere letto e spiegato al marittimo; l'adempimento di tale formalità si deve far constare nel contratto stesso". L'art. 332 c. nav. dispone, poi, che "il contratto di arruolamento deve enunciare: [...] 7) l'indicazione del contratto collettivo qualora esista".
Deve, dunque, ritenersi che per il legislatore del settore nautico, con la prescrizione, in linea generale, della forma dell'atto pubblico per il contratto di arruolamento e dell'obbligo di informazione del lavoratore marittimo, in sede di stipulazione, derivante dalle disposizioni normative ora riportate, risultino assicurate sufficentemente le esigenze di certezza del rapporto giuridico e quelle di allertamento della parte debole del contratto che, comunemente, si ritengono sottostanti alle prescrizioni di forma del patto di prova proprie dell'ordinamento giuslavoristico generale.
Quanto sin qui considerato è assorbente rispetto alle questioni che si pongono in ambito civilistico circa la invalidità del richiamo, ad opera delle parti di un negozio formale, a pattuizioni o ad atti estranei a tale negozio, salvo il caso che si tratti di pattuizioni intervenute tra le stesse parti e, comunque, di atti dalle stesse sottoscritti (v., peraltro, per la validità di richiamo di clausola compromissoria prevista in atto strativo quale il d.m. 28 maggio 1985, contenente il capitolato generale per le opere pubbliche, siccome dotato di pari livello di forma, Cass. 14 febbraio 1979, n. 965 e, per la validità del richiamo, nel contratto di acquisto di unità immobiliare, di clausole di regolamento condominiale antecedente, limitative del diritto di proprietà, Cass. 15 novembre 1986, n. 6738).
Una volta accertato, nel giudizio di merito, che il contratto di arruolamento venne stipulato nelle forme sue proprie, appare estranea al thema decidendi la questione se fosse valido (sotto il profilo anzidetto) il richiamo, nel contratto di lavoro individuale, del patto di prova previsto dalla contrattazione collettiva.
Non sarebbe, quindi, pertinente richiamare a proposito del contratto di arruolamento marittimo, il principio, enunciato da questa Corte suprema a proposito del contratto di lavoro di diritto comune secondo il quale in tema di assunzione in prova, il contratto collettivo contiene la previsione generale che, successivamente, potrà trovare applicazione nei vari, personali contratti di assunzione di volta in volta intercorrenti tra lavoratori e datori di lavoro, onde la disciplina dettata dall'art. 2096 c. civ. (che, però, come sopra detto, è estraneo al sistema del diritto della navigazione) deve intendersi riferita al singolo contratto personale di assunzione in prova, essendo del tutto ininfluente a tal fine la circostanza che l'assunzione in prova sia prevista dal contratto collettivo di categoria (v. recentem. Cass., 4 febbraio 1997, n. 1045 e, in materia di patto di prova apposto a contratto di formazione e lavoro, Cass. 19 novembre 1993, n. 11417).
Sono, del pari, estranee al tema controverso le questioni circa il valore del richiamo da parte dell'art. I c. nav. e, ancor più, del richiamo da parte dell'art. 2096 c. civ. ai contratti collettivi corporativi, dopo che è venuto meno l'ordinamento corporativo e dopo che ampiamente si è diffusa la pratica della stipulazione di contratti collettivi, c.d. di diritto comune, da parte di organizzazioni sindacali costituite come associazioni non riconosciute (hanno ritenuto soppressa l'inclusione delle norme corporative richiamate dall'art. 1 c. nav. tra le fonti del diritto marittimo, ai sensi dell'art. 3 del d.l.vo lgt. 23 novembre 1994, n. 369, Cass. 17 gennaio 1987, n. 383; analogamente Cass. 8 settembre 1988, n. 5112 e 4 luglio 1987, n. 5870 hanno affermato che la possibilità che le norme corporative deroghino, ai sensi dell'art. 374 c. nav., al disposto dell'art. 361 dello stesso codice in punto di determinazione della base di calcolo dell'indennità di anzianità non può ritenersi estesa ai contratti collettivi di diritto comune. Analogamente, ancora, Cass. 16 aprile 1986, n. 2694; 9 ottobre 1985, n. 4906; 6 luglio 1982, n. 4018 e 5 maggio 1979, n. 2574, hanno ritenuto che il riferimento fatto dall'art. 2096, primo comma, c. civ. a diversa previsione collettiva circa la forma necessaria, valga per i soli contratti collettivi corporativi e non per quelli successivi, neppure se resi efficaci erga omnes; di segno opposto è la dottrina prevalente la quale sottolinea come si ritenga normalmente riferito anche alla contrattazione collettiva postcorporativa il richiamo ad essa operato dagli articoli da 2106 a 2110 c. ctv. e non vi sia ragione per interpretare secondo un diverso criterio l'art. 2096 c. civ.; altri autori, tuttavia, hanno sottolineato come la contrattazione collettiva richiamata dall'art. 2096 abbia valore sostitutivo e non integrativo della previsione di legge).
Sottolinea, infatti, la Corte come il riferimento al contratto collettivo da parte dell'atto pubblico è legittimato (quanto alla forma) proprio dall'art. 332, n. 7) c. nav. e siffatta indicazione non può ritenersi in alcun modo inscindibilmente connessa all'ordinamento corporativo: essa non tende a riconoscere al contratto collettivo una valenza autonoma e distinta, quale fonte di diritto ex art. 1 c. nav. (come tale, se contenente clausole previste come inderogabili, vincolante indipendentemente dalla autonomia privata e quindi non necessitante, in astratto, di essere richiamato), rispetto all'assetto di interessi regolato dalle parti del contratto individuale, ma introduce il primo, m quanto oggetto di riferimento - operato dagli stipulanti non soltanto in sede di redazione dell'atto pubblico, ma anche di lettura e di spiegazione obbligatoria del contratto da parte dell'autorità marittima rogante -, all'interno dell'assetto voluto dalle parti del contratto di arruolamento marittimo.
Il dispositivo della sentenza impugnata è, dunque, conforme a diritto, anche se non del tutto esatto, in relazione a quanto appena osservato, è il riferimento del Tribunale, in ordine al patto di prova, al contratto collettivo di diritto comune quale fonte regolatrice del rapporto ex art. 1 c. nav. e non, come sarebbe stato più appropriato, alla norma di cui all'art. 1372 c. civ. (cioè in quanto recepito ad opera delle parti, sia pure per effetto di una prescrizione di legge, nel contratto di arruolamento, ad integrazione dello stesso e nella forma per esso prevista), sicché la motivazione del giudice di merito, così come dispone l'art. 384, ultimo comma, c.p.c., deve essere, nel senso anzi detto, corretta.
Quanto ai vizi di motivazione, posti in rilievo dal ricorrente non nell'enunciazione iniziale del motivo del ricorso, attinente alla sola violazione di legge, ma nella successiva illustrazione di esso, si tratta di censure da disattendere.
Il Tribunale ha, infatti, ritenuto che il contratto collettivo sancisce l'obbligatorietà del periodo di prova e siffatto accertamento di fatto non può essere contestato in sede di legittimità. Non appare poi sufficentemente perspicuo il senso e, soprattutto, la concludenza dell'argomentazione del ricorrente secondo cui "il contratto collettivo non esclude neppure in modo esplicito l'obbligo di forma scritta mentre mutua dal codice civile un istituto non previsto dal codice della navigazione; ma non è consentito recepire norme a mezzo servizio". Da un lato, infatti, tutta la difesa del Penazzi si è fondata sul presupposto della invalidità del patto di prova perché non risultante da atto scritto; d'altro lato, è inammissibile in questa sede prospettare una interpretazione del contratto collettivo in qualche modo diversa da quella operata dal giudice di merito, soprattutto, quando non venga riportato, come sarebbe stato obbligatorio, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, il contentito della pattuizione collettiva di riferimento. In ogni caso, appare risolutivo richiamare, come assorbenti, le considerazioni già svolte trattando della prima parte del motivo intorno ai rapporti tra obbligo di forma del contratto di arruolamento, contratto collettivo e autonomia contrattuale. La denuncia di omissione di motivazione in ordine al fatto che il licenziamento sarebbe intervenuto (secondo la prospettazione del lavoratore) quando il periodo di prova era ormai decorso, appare infondata ove si consideri che il giudice del merito ha chiaramente motivato a tale proposito (senza che vengano ora dedotti vizi del suo ragionamento). Ha, infatti, ritenuto destituito di fondamento l'assunto del lavoratore - secondo cui alla durata del secondo rapporto di lavoro (1º/27 dicembre 1990) avrebbe dovuto aggiungersi quella del primo talché il periodo di prova di trenta giorni avrebbe dovuto considerarsi superato - rilevando che si era trattato di due diversi rapporti di lavoro, il primo dei quali, oltretutto, a tempo determinato e quindi "ontologicamente estraneo (anche per la sua brevità) al concetto di prova", onde la somma dei due periodi non era consentita. Conclusivamente, assorbito ogni ulteriore profilo di censura, il ricorso deve essere rigettato.
Ricorrono giusti motivi per l'integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità (art. 92 c.p.c.).

PER QUESTI MOTIVI

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione.


(pagina a cura di Enzo Fogliani - aggiornata il 27.3.2013) 

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