Cassazione n. 5123 del 5 maggio 1994
10 maggio 1995 Vai all'articolo in PDF


 
 CASS. CIV., I sez., 10.5.1995, n. 5123
riforma App. Genova, 31.1.1992.

ASSICURAZIONE - ASSICURAZIONE MARITTIMA ED AEREA - RISCHIO - SINISTRI - IN GENERE - INDENNIZZO - DIRITTO - TUTELA GIUDIZIALE - PROVA SPETTANTE ALL'ASSICURATO - OGGETTO - SOMMERSIONE SEGUITA DA AFFONDAMENTO DERIVABILE DA UNA PLURALITA' DI CAUSE - FATTO COSTITUENTE CRITERIO DELIMITATIVO DEL RISCHIO - PROVA - CONSEGUENZE. (cod. nav., artt. 421, 515, 521, 525; cod. civ.. art. 2697)

ASSICURAZIONE - ASSICURAZIONE MARITTIMA ED AEREA - RISCHIO - DELLA NAVIGAZIONE - DANNI DERIVATI DA INNAVIGABILITA' - INDENNIZZABILITA' - CONDIZIONI. (Cod. nav., artt. 422, 515, 521, 525, 524).
 

MASSIME UFFICIALI:
(a) In tema di assicurazione della nave, l'onere della prova è regolato dall'art. 2697 cod. civ., e cioè dal principio che chi vuole far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento (mentre chi ne eccepisce l'inefficacia deve provare gli estremi della propria eccezione), con la conseguenza che l'assicurato che vuol fare valere il proprio diritto all'indennizzo deve provare che si è realizzato il rischio coperto da garanzia e che esso ha causato il danno del quale chiede di essere indennizzato. Con riguardo alla sommersione seguita da affondamento - derivabile da una pluralità di cause, alcune delle quali possono essere incluse tra i rischi coperti ed altre no - il fatto costituente criterio delimitativo del rischio, se provato, esclude la ricorrenza del rischio coperto, correlativamente valendo, il non verificarsi di esso, come prova della sussistenza di un rischio coperto come causa del sinistro (nella specie, si trattava di verificare se la sommersione e l'affondamento della nave dipendessero da "perils of the sea" o da vizi occulti ovvero da una situazione di innavigabilità della nave).
(b) Nel contratto di assicurazione della nave incombe all'assicurato l'obbligo (corrispondente a quello cui è tenuto il vettore nel contratto di trasporto marittimo) di approntare la nave in stato di navigabilità, sia alla partenza che in ciascuno degli scali intermedi del viaggio, ponendosi la eventuale innavigabilità come criterio di delimitazione del rischio assunto dall'assicuratore. Tuttavia, la innavigabilità assume rilevanza solo in presenza di colpa dell'assicurato, senza la quale essa viene a costituire un vizio occulto. Pertanto, pur in presenza di una situazione di innavigabilità della nave alla partenza, sono indennizzabili i danni da essa derivati quando la innavigabilità dipende da vizio della nave (compresa la vetustà o l'usura derivante dal suo normale impiego), salvo che questa fosse scopribile dall'assicurato con l'uso della normale diligenza, nonché, quando l'innavigabilità dipende da colpa del comandante o dell'equipaggio, salvo che l'armatore assicurato ne sia stato partecipe.

SENTENZA:

(..Omissis...)
  La Sarda Armatoriale Punta Falcone S.p.A., quale proprietaria-armatrice della m/n gasiera "Capo Falcone" di nazionalità italiana, con scafo assicurato con clausola f.a.p.s. a tempo per 12 mesi dal 10/11/1987 presso la Levante Assicurazioni S.p.A., delegataria delle coassicuratrici SIAT S.p.A., COMAR S.p.A., ASSITALIA S.p.A., PRUDENTIAL S.p.A., LLOYD ITALICO S.p.A. e VITTORIA ASSICURAZIONI S.p.A., per un massimale di £. 1.000.000.000, conveniva dinanzi al tribunale di Genova le predette compagnie assicuratrici, per essere indennizzata della perdita totale della nave, esponendo che la stessa, mentre era in navigazione con un carico propilene tra Gela e Cagliari, dopo essere stata costretta, dalle cattive condizioni metereologiche, a ridossarsi presso l'isola di Favignana, vi era parzialmente affondata nelle prime ore del 18/3/1988 e che, dopo reiterati ordini di rimozione dell'unità da parte della Capitaneria di Porto Trapani, considerando che il solo costo delle operazioni di rimozione avrebbe di gran lunga superato il valore del relitto, aveva notificato in data 8/4/1988 ex art. 540 c.n. agli assicuratori atto di abbandono della nave, la quale poi era definitivamente affondata su alti fondali il 17/6/1988.
 Si costituivano tutte le compagnie assicuratrici, deducendo:
 a) l'originaria innavigabilità della nave, quale causa primaria del sinistro;
 b) il difetto dei presupposti per la convalida dell'abbandono della nave ex art. 540 c.n. e condizioni generali ed addizionali di polizza (cioè la perdita totale fisica o funzionale della nave, non totalmente sommersa né in condizioni di irrecuperabilità) non essendosi verificato un caso, d'altronde non dedotto, di "perdita costruttiva".
 Il Tribunale adito, con sentenza 28/10/1989, respingeva la domanda (pur ritenendone l'ammissibilità anche sotto il profilo della c.d. perdita totale costruttiva), per mancata dimostrazione della derivazione del sinistro da un rischio coperto nella polizza dedotta in giudizio.
 Impugnava in via principale la Sarda Armatoriale Punta Falcone ed in via incidentale le altre compagnie assicuratrici (queste ultime con riferimento al mancato assolvimento da parte attrice dell'onere probatorio circa i presupposti della "perdita totale costruttiva" ed all'inadempimento dell'assicurata agli obblighi di salvataggio).
 La Corte d'appello di Genova osservava:
 a) che la sommersione della nave costituiva rischio coperto ai sensi dell'art. 1 delle condizioni particolari di polizza (secondo cui l'assicurazione veniva prestata alle condizioni delle allegate "Institute Time Clauses Hulls", ma limitatamente alle condizioni franco avaria particolare, salvo i casi d'incendio, incaglio, urto e... sommersione), poiché siffatta norma, limitando la copertura ai c.d. grandi rischi con l'esclusione dell'avaria particolare, che veniva però ammessa soltanto in relazione a determinati casi tra i quali la sommersione, prendeva in considerazione quest'ultimo evento non come rischio coperto ma come semplice conseguenza di una situazione pregiudizievole della nave: d'altronde, se si fosse ritenuta la sommersione rischio coperto in sè, ne sarebbe risultato modificato l'ambito dei "named perils" tassativamente indicati dalle ITCH richiamate nella prima parte del citato art. 1.
 b) ne conseguiva che l'affondamento della nave da sommersione doveva essere valutato secondo la clausola n. 6 delle suddette ITCH e cioè nell'ambito del denunciato "peril of the sea", la cui sussistenza ed il cui nesso eziologico con l'evento assicurabile dovevano essere dimostrati ad opera dell'assicurato, cui incombeva l'onere di provare il fatto costitutivo della responsabilità dell'assicuratore.
 c) che, alla luce dell'espletato accertamento tecnico preventivo, era emerso che: 1 - già alla partenza, la nave a pieno carico e con zavorramento parziale aveva un "momento di stabilità" esiguo, emergendo lo scafo di soli 50 centimetri sopra il livello del mare; 2 - che nel corso della navigazione e fino all'affondamento nessuna falla si era aperta nello scafo o in coperta; 3 - che i cieli dei doppi fondi erano corrosi in più punti; 4 - che le guarnizioni di tenuta dei serbatoi sul ponte di coperta erano ugualmente logore e corrose in più punti; 5 - che, infine le tubolature di zavorra attraversanti le stive erano in più punti forate e perdenti, nonostante reiterati provvisori rappezzi d'emergenza.
 d) che, in base ai dati del giornale nautico, non si riscontrava elementi di straordinarietà delle condizioni meteorologiche e che si rilevava, anzi, che la nave non si era dovuta trovare ad affrontare una tempesta, cioè una "fortuna di mare", di violenza tale da svellare e sfondarne le strutture.
 Tali essendo le acquisite risultanze processuali, non era ravvisabile alcun nesso di causalità da discriminare in favore della nave dell'evento dannoso della sommersione, presumibilmente derivante dalla precarietà delle condizioni di navigabilità della nave stessa.
 Concludeva quindi la corte di Genova per la mancanza di prova circa il fatto costitutivo della responsabilità dell'assicuratore, cioè la riconducibilità del sinistro ad un "peril of the sea", sussistendo, anzi, una presunzione contraria: respingeva pertanto l'impugnazione della "Sarda Armatoriale Punta Falcone", con sentenza 28/11/1991 - 31/1/1992.
 Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione - affidato a cinque motivi - la "Sarda Armatoriale Punta Falcone" S.r.l.; resistono, notificando controricorso, le parti intimate.
MOTIVI DELLA DECISIONE
  Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione delle norme di ermeneutica contrattuale.
 In particolare si assume che erroneamente la Corte d'Appello ha ritenuto la sommersione non un "rischio coperto", ma una semplice "conseguenza" di una situazione pregiudizievole della nave escludendola dall'ambito dei "named perils", mentre appare evidente dal tenore della clausola F.A.P.S., richiamata dall'art. 1 delle combinazioni di polizza che i quattro rischi menzionati (incendio, furto, incaglio e sommersione) costituiscono "pericolo nominato" e quindi rischio coperto. Così operando, la sentenza ha erroneamente escluso che le condizioni generali di polizza di cui al formulario I.T.C.H. fossero derogabili dall'art. 1 delle condizioni particolari, ove è espressamente specificato che "la sicurtà viene prestata alle condizioni dello "Institute Time Clauses Hull ed. 1983", ma limitatamente alle condizioni franco avaria particolare salvo i casi di incendio, incaglio, urto e.... sommersione".
 Inoltre, contrariamente al disposto dell'art. 1370, nell'ambiguità della clausola, i giudici hanno accolto l'interpretazione più favorevole alle compagnie assicuratrici che tale clausola avevano predisposto.
 Con il secondo motivo, denunziandosi vizio di motivazione con riferimento alla valutazione delle prove e delle risultanze dell'accertamento tecnico preventivo, si assume che erroneamente sono state ritenute "pacifiche" circostanze invece contestate, e relative alle condizioni di navigabilità; non risultanti neppure in modo positivo dell'esame del relitto, ma tratte da semplici considerazioni ed ipotesi del C.T.U.; contrastanti, inoltre, con la documentazione acquisita tramite il R.I.NA., mentre è stata immotivatamente esclusa l'ammissione della prova testimoniale che era stata dedotta al fine di dimostrare le reali condizioni della nave.
 Con il terzo motivo si deduce violazione di legge (art. 169 cod. nav.) circa la valutazione della certificazione del R.I.N.A.; degli artt. 421 e 422 e 525 cod. nav.; nonché vizio di apprezzamento delle presunzioni in materia civile. In particolare la ricorrente censura l'iter logico seguito nella sentenza impugnata per escludere che la sommersione costituisse rischio normativamente coperto ed affermare invece che, rientrando nell'ambito dei "perils of the sea", doveva essere eziologicamente collegato ad uno specifico fatto costitutivo della responsabilità dell'assicuratore, con onere della prova a carico dell'assicurato. Facendo riferimento alla disciplina contenuta negli artt. 421, 422, 524.1 e 525 cod. nav., la ricorrente sostiene che l'onere è spostato a carico dell'assicurato allorché vi sia accertamento positivo che il danno sia stato provocato dalla causa normativamente individuata (innavigabilità, vizio occulto, "fortuna di mare" ed altro) che esonerano in genere il vettore da responsabilità, a mezzo che non ricorrono determinati fatti escludenti; nella specie, invece, sulla base di presunzioni non supportate da fatti certi, è stata affermata la ricorrenza di una situazione di innavigabilità, cui addebitare l'evento della sommersione.
 Con il quarto motivo si deduce ulteriore violazione dei canoni ermeneutici della volontà contrattuale, censurandosi la sentenza impugnata per avere omesso di condurre ogni indagine circa la prassi interpretativa inglese delle clausole I.T.C.H., espressamente richiamate dalle parti nelle condizioni generali di contratto (con particolare riferimento all'identificazione della nozione "peril of the sea", di vizio occulto, e di rilevanza della conoscenza dello stato di innavigabilità della nave): così pretermettendo di applicare il corretto canone interpretativo ed omettendo di fornire adeguata ragione del proprio convincimento.
 Con il quinto motivo, denunziandosi violazione dei canoni interpretativi della volontà contrattuale, si precisa che la sentenza ha dato rilievo ad una supposta condizione di innavigabilità della nave per escludere la risarcibilità del sinistro, senza considerare che le condizioni particolari di polizza (art. 4) non prevedevano l'obbligo per l'assicurato di mantenere la nave in stato di navigabilità, ma solo di mantenerla in classe.
 Tali motivi, fra loro strettamente connessi, possono essere congiuntamente esaminati.
 La Corte territoriale ha proceduto all'interpretazione della clausola (art. 1 delle condizioni particolari di polizza) c.d. F.A.P.S. che esclude le avarie particolari, salvo che non siano causate da "incendio, incaglio, urto ....e sommersione". Ed ha dato atto che, in base ad essa, la sommersione è presa in considerazione non come "rischio coperto", di per sè, ma come effetto di una situazione pregiudizievole della nave. Ed ha rilevato che, se si ritenesse la sommersione un rischio coperto (quale che ne sia stata la causa) si verrebbe a modificare l'ambito dei "named perils" indicati tassativamente dalla I.T.C.H.. In tal modo il giudice di merito, in conformità alla portata letterale della clausola e nella ricerca della comune intenzione delle parti, ha correttamente distinto la nozione di "rischio" - come causa di eventi dannosi coperto da assicurazione - da quello di un evento (la sommersione) che può derivare o meno del verificarsi di un rischio coperto. Ed ha, in sostanza, preso atto che, in base al tenore della clausola, la "sommersione" veniva a costituire uno dei casi in cui poteva considerarsi coperta l'avaria particolare, altrimenti esclusa dalle condizioni limitative di polizza. L'individuazione della volontà contrattuale, in mancanza di violazione di canoni ermeneutici, si risolve in un accertamento di fatto riservato al giudice di merito, e non censurabili in quanto non inficiate da insufficiente, contraddittoria od illogica motivazione, Nè appare ravvisabile violazione dell'art. 1370 c.c. in quanto (a prescindere dalla ricorrenza o meno, dal presupposto obiettivo della predisposizione della clausola in formulari predisposti dalle Compagnie assicuratrici) il canone dell'interpretazione contra proferentem è in regola di interpretazione oggettiva che mira a risolvere dubbi o ambiguità - che nelle specie non sono ravvisati - del testo contrattuale, non risulti in base alle norme sull'interpretazione c.d. soggettiva.
 Conseguentemente la Corte di merito ha identificato il sinistro nell'affondamento stesso della nave, e ha ritenuto che la sua indennizzabilità deve essere valutata sull'ambito dei rischi coperti (art. 6 dell'I.T.C.H.) "e cioè sull'ambito del denunziato "peril of the sea", la cui sussistenza ed il cui nesso eziologico con l'evento assicurabile deve essere dimostrato dall'assicurato".
 In effetti, anche nel contratto di assicurazione marittima di merci, l'onere della prova deve essere regolato sulla base dell'art. 2697 e cioè del principio che chi vuol far volere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento (mentre chi ne eccepisce l'inefficacia deve provare gli estremi della propria eccezione). Per conseguenza, l'assicurato che vuol far valere il proprio diritto all'indennizzo deve provare che si è realizzato il rischio coperto da garanzia e che esso ha causato il danno del quale chiede di essere indennizzato.
 Ora, nella specie, a fronte di un evento consistito nella stessa sommersione (e successivo affondamento della nave) si trattava di verificare se esso dipendeva da "perils of the sea", o da vizi occulti, ovvero alternativamente, da situazione di innavigabilità della nave. Tale situazione - salve le precisazioni di cui appresso - si pone come criterio delimitativo del rischio assunto dall'assicuratore.
 Di fronte ad un fatto - quale la sommersione seguita da affondamento - che può derivare da una pluralità di cause, alcune incluse fra i rischi coperti, l'altra esclusa, le condizioni sopra esposte sull'onere probatorio, in linea di principio, non mutano. Fungendo, tuttavia, il fatto costituente criterio delimitativo del rischio, come tale da escludere, se provato, la ricorrenza del rischio coperto; e, correlativamente, volendo, il non verificarsi di esso, come prova della sussistenza di un rischio coperto come causa del sinistro. A tale stregua, e sulla base della valutazione delle "acquisite risultanze processuali", la Corte di merito ha ritenuto "indubbio che, tra le particolari condizioni meteomarine (forza 7/3 della scala Beaufort) in cui la Capo Falcone venga a trovarsi - condizioni meteomarine non aventi....le caratteristiche di eccezionale imprevedibilità tale da integrare la c.d. fortuna di mare e l'evento dannoso dedotto in giudizio difetti la causalità da discriminare in favore della nave, in quanto non è presuntivamente accreditabile.... per una nave che presenti infiltrazioni di acqua in stiva e non anche denunci....lesioni occorse nelle strutture di contenimento, una causalità diversa da quella, a tutto concedere, della precarietà delle sue condizioni di navigabilità e dei suoi propri elementi di armamento".
 Tale sintetica affermazione si fonda su un accertamento di fatto che appare sindacale sul piano del vizio di motivazione e su una inesatta nozioni del concetto di "perils of the sea" applicabile alla fattispecie, nonché di quello di innavigabilità della nave, quale criterio di delimitazione del rischio.
 Sotto il primo profilo, la sentenza afferma essere "pacifiche", alla luce dell'accertamento tecnico preventivo, ovvero del giornale nautico, talune circostanze da cui ha dedotto rispettivamente la violazione da parte dell'armatore dell'obbligo di approntare la nave in stato di navigabilità (escludendo l'ipotesi di vizio occulto) e l'esclusione di elementi di straordinarietà delle condizioni metereologiche. Senonché il primo nucleo di circostanze non si riferisce a fatti pacifici in causa, in quanto si trattava di fatti controversi, a smentire i quali era stata dedotta prova testimoniale, non ammessa, senza alcuna specifica motivazione. Nè l'accertamento tecnico preventivo dà come assolutamente certe e provate tutte quelle circostanze, avendo rilevato l'impossibilità di effettuare il controllo delle strutture della nave, e come le notizie e informazioni raccolte dalle memorie dei consulenti di parti, consentono solo di formulare "ipotesi" sulle cause dell'affondamento.
 In tale situazione probatoria non può sussistere una (implicita) ragione di ininfluenza delle prove orali dedotte, quale sarebbe potuta scaturire dalla acquisita certezza sugli elementi di fatto oggetto della prova stessa.
 Sotto il secondo profilo, la Corte parte da una piena equiparazione tra la nozione di "perils of the sea" e quello di "fortuna di mare", quale essa è stata elaborata dalla giurisprudenza in un tema di trasporto, in applicazione dell'inversione dell'onere probatorio di cui all'art. 422 II comma cod. nav., in presenza di "pericoli eccettuati". Senonché la ricorrenza della fattispecie di copertura del rischio assicurativo non si identifica necessariamente con quella di esonero del vettore, collegata a quelle sole intemperie di mare che costituiscono causa di forza di maggiore, in presenza degli estremi della inevitabilità dell'evento per il suo improvviso insorgere, e della concreta impossibilità di prevenirle. E, in ogni caso, il parametro legale al quale rapportare la concreta fattispecie, doveva essere identificato sulla base dell'art. 2 delle condizioni generali di polizza, che prevedeva che la copertura fosse prestata in base al formulario inglese I.T.C.H. così come interpretato ed applicato in Inghilterra. La decisione impugnata non contiene valutazione alcuna, della consuetudine interpretativa (allegata e documentata dalla odierna ricorrente) in base alla quale, secondo la prassi britannica, per peril of the sea si intendono gli effetti della forza del mare che eccedono la normale usura delle onde sullo scafo, neppure per confutare l'esistenza o l'applicabilità alla concreta fattispecie.
 Allo stesso modo, inesatta è la nozione di "innavigabilità della nave", intesa quale circostanza delimitativa del rischio assunto dell'assicuratore in quella "precarietà delle sue condizioni di navigabilità e dei suoi propri elementi di armamento". Invero, come la giurisprudenza di questa Corte ha chiarito (Cass. 2/3/1973 n.572), nel contratto di assicurazione della nave incombe all'assicurato l'obbligo (corrispondente a quello cui è tenuto il vettore sul contratto di trasporto marittimo) di approntare la nave in stato di navigabilità, sin alla partenza che in ciascuno degli scali intermedi del viaggio, ponendosi la eventuale innavigabilità come criterio di delimitazione del rischio assunto dall'assicuratore, con le precisazioni che seguono. Pur in presenza di una situazione di innavigabilità della nave alla partenza, sono indennizzabili i danni da essa derivati "quando la innavigabilità dipende da vizio della nave (compresa la vetustà o l'usura derivante dal suo normale impiego) salvo che questa fosse scopribile dall'assicurato con l'uso della normale diligenza"; nonché "quando la innavigabilità dipende da colpa del comandante o dell'equipaggio", salvo che l'armatore assicurato ne sia stato partecipe. In sostanza, come è stato rilevato, alla valutazione soggettiva della innavigabilità della nave al viaggio "si sostituisce il principio della normale diligenza nel senso che, ai fini della delimitazione del rischio assicurato, la innavigabilità assume rilevanza solo in presenza della colpa dell'assicurato, "senza la quale viene a costituire vizio occulto". Anche tale nozione, inoltre, andava precisata, alla stregua della nozione di latent defect nella prassi interpretativa britannica (anche sulla base dell'art. 35 del Marine Insurance Act e della nozione di privity ivi enunciata). Anche sotto tale profilo la sentenza impugnata ha omesso ogni indagine, avendo identificato nella sola inidoneità oggettiva l'estremo rilevante della nozione di innavigabilità. Ed a tale stregua ha negato rilievo all'intervenuta certificazione del R.I.NA. sulle soddisfacenti condizioni della nave, in presenza del dato obiettivo del suo affondamento senza (che siano emerse) consistente lesioni allo scafo.
 Pertanto, rigettato il primo motivo di ricorso, devono essere accolti, alla stregua di cui alla motivazione che precede, i motivi successivi; e la causa dovrà essere rimessa a giudice di rinvio, designato nella parte dispositiva, che deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
  La Corte, rigetta il primo motivo di ricorso;
 accoglie, per quanto di ragione, gli altri motivi; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, ad altra Sezione della Corte d'appello di Genova.
 
 

La nuova giurisprudenza civile commentata
1996 244
 
Enzo Fogliani
 
ONERE DELLA PROVA E NAVIGABILITA' DELLA NAVE
NELL'ASSICURAZIONE CORPI
 

I. Il caso

 La vertenza esaminata dalla corte di cassazione nasce da un sinistro marittimo verificatosi in circostanze piuttosto peculiari. La m/n Capo Falcone era una nave di costruzione risalente, battente bandiera italiana, assicurata alle condizioni di cui al capitolato della "Polizza di assicurazione marittima su corpo e macchine di navi a scafo metallico o su altri interessi armatoriali", edizione ANIA 1986, integrata dalla "Institute Time Clauses Hulls", edizione 1983.

 Il 17 marzo 1988, con i prescritti certificati di classe in regolare corso di validità, aveva intrapreso un viaggio da Gela a Cagliari con un carico di 952,374 tonnellate propilene (gas liquido) destinato alla Enichem. La navigazione non era stata delle più felici. La nave, che per effetto del carico in alcuni punti emergeva dall'acqua per soli 50 centimetri, aveva incontrato durante la navigazione tempo cattivo con mare forza 7/8. Aveva quindi invertito la rotta per cercare rifugio nei pressi di Favignana; ma durante l'avvicinamento all'isola aveva imbarcato acqua, inclinandosi a dritta. Nonostante l'impiego delle pompe di bordo ed il successivo intervento di un rimorchiatore, era parzialmente affondata in bassi fondali adagiandosi con la poppa sul fondo e la prora in parte emergente.

 A seguito di ciò, dopo che la Capitaneria di Porto Trapani aveva ordinato la rimozione del relitto, gli armatori avevano notificato in data 8 aprile 1988 agli assicuratori atto di abbandono della nave ex art. 540 c.n., sul presupposto che il solo costo delle operazioni di rimozione avrebbe di gran lunga superato il valore del relitto.

 Nel frattempo, su istanza degli interessati al carico, era stato disposto dal Tribunale di Trapani un accertamento tecnico preventivo in relazione alle condizioni di navigabilità della nave ed alla identificazione delle cause del suo affondamento. Il perito d'ufficio, peraltro, non aveva potuto accedere a bordo della nave semiaffondata a causa del veto posto per ragioni di sicurezza dall'autorità marittima.

 Tre mesi dopo la nave era stata presa a rimorchio per essere portata verso la Sicilia; ma durante il tragitto, in data 18 giugno 1988, la Capo Falcone era affondata definitivamente su alti fondali (circa 300 metri), senza possibilità di recupero.

 Avendo gli assicuratori contestato l'abbandono ex art. 546 cod. nav. effettuato dall'armatore, la Sarda Armatoriale Punta Falcone li conveniva in giudizio innanzi al tribunale di Genova con citazione del 13 settembre 1988. I convenuti si costituivano eccependo il difetto di prova circa la derivazione del sinistro da uno specifico rischio coperto, l'innavigabilità della nave alla partenza, nonché il difetto dei presupposti di fatto (perdita totale fisica o funzionale della nave) per procedere all'abbandono. Il tribunale di Genova, con sentenza 28 ottobre 1989 (pubblicata in Dir. Mar. 1990, 395; In Assicurazioni, 1991, II, 2, 199, con nota di FERRARINI, Perdita a seguito di sommersione e navigabilità della nave) respingeva la domanda dell'armatore, ritenendo non provata la derivazione del sinistro da un rischio coperto dalla polizza.

 L'armatore impugnava tale sentenza; ma la corte d'appello di Genova, con sentenza 31 gennaio 1992 (in Dir. Mar. 1992, 445) rigettava la domanda. Sulla pretesa degli armatori che l'affondamento fosse fra i rischi garantiti, la corte osservava che, nel sistema della polizza, la mera sommersione non costituiva un rischio escluso, bensì una mera conseguenza del verificarsi di un rischio. Riteneva inoltre che, nel caso di specie, il cattivo tempo incontrato dalla nave non potesse rientrare fra i perils of sea coperti dalla polizza assicurativa; dovendosi quindi presumere che l'affondamento fosse stato determinato invece da uno stato di innavigabilità della nave alla partenza, presunzione non vinta dai certificati di classe del R.I.Na.

 Contro la sentenza d'appello ricorreva per cassazione la Armatoriale Sarda Punta Falcone, con i motivi di ricorso più puntualmente descritti nel testo della sentenza che si annota.
 

II. Le questioni

  1. IDENTIFICAZIONE DEL RISCHIO ASSICURATO ED ONERE DELLA PROVA NELL'ASSICURAZIONE CORPI.

 La prima questione che si presenta è inerente all'identificazione, nella polizza dedotta in giudizio, del rischio assicurato.

 Come già accennato, la Capo Falcone era assicurata alle condizioni di cui al capitolato della "Polizza di assicurazione marittima su corpo e macchine di navi a scafo metallico o su altri interessi armatoriali", edizione ANIA 1986, integrata dal formulario "Institute Time Clauses Hulls", edizione 1983 (il cui testo può essere reperito in FERRARINI, Le assicurazioni marittime, Milano 1991, 533). L'art. 1 delle condizioni particolari della polizza specificava infatti che l'assicurazione veniva prestata alle condizioni delle I.T.C.H. franco avaria particolare, salvo i casi di incendio, incaglio, urto e sommersione.

 Secondo la tesi degli assicuratori, accolta dalla corte d'appello di Genova, la polizza andrebbe letta nel senso che la polizza copriva soltanto i cosiddetti grandi rischi, mentre l'avaria particolare veniva coperta soltanto in relazione a determinati eventi, fra cui, appunto, la sommersione. Essendosi verificato, nel caso di specie, un "grande rischio" che ha portato alla perdita totale, sarebbero applicabili integralmente le I.T.C.H., e quindi il rischio valutato sulla base dei named perils in essi indicati; fra i quali la sommersione di per sè non è prevista.

 Tale tesi, integralmente accolta dalla corte d'appello di Genova e confermata dalla corte di cassazione (che ritenendo la decisione dei giudici d'appello un accertamento di fatto, non è entrata nel merito della questione) appare corretta.

 E' pacifico che la clausola F.A.P.S valga ad includere in una polizza che copra solo la perdita totale anche l'avaria particolare che si verifichi per l'accadimento dei quattro rischi (incendio, Investimento, urto e sommersione) in essa indicati (cfr. DONATI, Trattato del diritto delle assicurazioni private, III, 29). Peraltro, la clausola FAPS ed i relativi rischi rilevano solo nelle ipotesi in cui, appunto, si stia trattando di avaria particolare.

 Nel caso di specie, si trattava invece si perdita totale, tanto che era stata fatta dichiarazione di abbandono; talché esattamente la corte d'appello ha ritenuto che formulario di riferimento dovesse essere l'I.T.C.H., e di conseguenza i rischi assicurati quelli ivi indicati come named perils.

 Una volta stabilito lo strumento contrattuale applicabile (appunto le I.T.H.C.), andava stabilita la ripartizione degli oneri probatori fra assicuratore ed assicurato. La sentenza di primo grado (in Dir. mar. 1990, 395) aveva esattamente rilevato come il sistema dei named perils delle I.T.C.H. comporti una deroga al sistema configurato dall'art. 521 cod. nav., che, al contrario, in luogo di rischi specifici prevede che la polizza marittima copra l'universalità dei rischi della navigazione. Sulla base di tale premessa, il tribunale si era poi spinto ad una suddivisione degli oneri probatori basata su una sostanziale applicazione della legge inglese, che peraltro aveva destato qualche perplessità.

 E' ormai prevalente opinione che le clausole inglesi inserite in una polizza assicurativa italiana vadano interpretate nello stesso modo e con lo stesso significato che hanno nel loro paese d'origine (cfr. lodo arbitr. 11/3/1982, in Dir. Mar. 1982, 276, con nota di BOGLIONE); e, a scanso di equivoci, nel formulario era presente una clausola che specificava che le clausole inglesi allegate alla polizza dovevano essere interpretate ed applicate così come lo erano in Inghilterra (su tale specifica clausola di polizza, si veda RIGHETTI, Trattato di diritto marittimo, III, 1994, 1177 ss.). I giudici di primo grado si erano però spinti ben oltre alla mera interpretazione delle clausole secondo la prassi inglese, giungendo a ritenere sostanzialmente applicabile il diritto inglese a tutto il rapporto; e ciò anche con riferimento agli aspetti probatori, nonostante la polizza prevedesse esplicitamente che il contratto fosse regolato dalla legge italiana.
 
 Anche se la corte d'appello, nel confermare la sentenza, non si è diffusa sul punto in modo tanto specifico quanto i giudici di primo grado, la corte di cassazione ha ritenuto opportuno specificare che l'onere della prova, in contratti regolati dalla legge italiana, è comunque regolato dall'art. 2967 cod. civ., anche se si tratti di contratti redatti su formulari stranieri.

 La statuizione appare del tutto corretta. L'interpretazione di un formulario secondo i canoni ermeneutici ed il significato assunto nel paese d'origine è cosa ben diversa dall'applicabilità in toto della legge d'origine del formulario stesso. Dottrina e giurisprudenza arbitrale hanno già in passato escluso che il mero inserimento in polizze italiane di formulari stranieri possa valere quale scelta pattuita della legge applicabile (FERRARINI, le assicurazioni Marittime, I ed., Milano 1981, 22; lodo arbitrale 11/2/1982, in Dir. Mar. 1982, 278); ed hanno esattamente sottolineato la necessità di valutare "se le soluzioni adottate in Inghilterra siano una interpretazione delle Clauses, ovvero solo applicazione di regole del diritto inglese" (FERRARINI, op. cit., 132).

 Nel caso di specie, appare oltremodo dubbio che nelle I.T.C.H. possano rinvenirsi norme sulla ripartizione dell'onere probatorio; tanto che la sentenza di primo grado si era al riguardo esplicitamente alla "case law" inglese (in particolare, al "Popi M"). Quindi, trattandosi di polizza basata su formulario base italiano ed in mancanza di un accordo che assoggettasse il contratto alla legge inglese, l'applicabilità delle norme inglesi in tema di onere della prova andava ben al di là della mera interpretazione del formulario I.T.H.C. secondo la prassi inglese.

 Stabilita quindi l'applicabilità della legge italiana in tema di onore probatorio, la corte di cassazione ha affrontato lo specifico tema della suddivisione dell'onere probatorio in campo assicurativo. Secondo la comunemente accettata definizione di rischio assicurato, esso deve intendersi come la possibilità di verificazione di uno o più eventi identificati nel contratto di assicurazione (Si veda DONATI, Trattato del diritto delle assicurazioni private, III, 20; FANELLI, Le assicurazioni, in trattato di dir. civ. e comm. a cura di CICU e MESSINEO, 68 ss.). Tale evento è in genere definito sinistro (così ad esempio l'art. 1882 cod. civ.); e l'obbligazione dell'assicuratore è il risarcimento del danno provocato all'assicurato da detto sinistro (art. 1882 cod. civ.).

 La polizza di assicurazione indica quindi generalmente una serie di eventi, la cui possibilità di verificazione costituisce il rischio coperto. Spetta quindi all'assicurato provare che si è accaduto l'evento dannoso, la cui verificazione è prevista dalla polizza come rischi coperto. A seconda del tipo di polizza, tale onere può essere più o meno pesante. I formulari più favorevoli all'utente sono, sotto questo profilo, quelli delle coperture All Risks (diffuse soprattutto nel settore dei trasporti). Tali assicurazioni non indicano gli specifici rischi coperti, ma garantiscono qualsiasi evento dannoso possa colpire il bene assicurato. E' quindi sufficiente per l'assicurato provare che la merce ha semplicemente subìto un danno entro il periodo di copertura. Spetterà poi all'assicuratore eventualmente provare che l'evento è al di fuori della delimitazione del rischio (p.es.: è dovuto a dolo dell'assicurato) o che sussistono motivi di inoperatività della copertura assicurativa.

 Gli altri tipi di polizze invece generalmente elencano gli eventi specifici oggetto di copertura. In applicazione dell'art. 2697 cod. civ., in questi casi spetta quindi all'assicurato provare, oltre al danno, che esso si è verificato in conseguenza del verificarsi di un rischio coperto.

 Altra ipotesi che si verifica nella pratica è quando il rischio dedotto in polizza è un cosiddetto rischio qualificato: ossia, i casi in cui le parti qualificano il rischio assunto o positivamente (ad esempio, indicando specificamente la causa genetica dell'evento dannoso: p. es. "incendio da corto circuito"), oppure negativamente (specificando i cosiddetti rischi esclusi). Tali ipotesi costituiscono una delimitazione legale del rischio; la quale peraltro non deve essere confusa con il concetto di rischio assicurato, che è e rimane ancorato all'evento produttivo del danno. L'indicazione di un rischio assicurato con una specifica qualificazione genetica comporta l'individuazione di un rapporto causale; che, come tale, si stabilisce sempre fra due eventi. In linea teorica, tali eventi legati dal rapporto causale potrebbero ciascuno, a loro volta, essere astrattamente idonei a configurare un rischio autonomo (per rimanere all'esempio precedente, un corto circuito potrebbe, anche senza sfociare in un incendio, provocare un black out foriero di danni per l'assicurato).

  Peraltro, dei due eventi inseriti nel rapporto causale, solo il secondo può considerarsi componente del rischio ai fini assicurativi. Se infatti l'obbligo dell'assicuratore è l'indennizzo dei danni provocati all'assicurato da un sinistro (art. 1882 c.c.), e se il rischio è la possibilità che detto sinistro (l'evento) si verifichi, allora elemento focale non può che essere l'evento dannoso costitutivo il sinistro stesso, e non l'evento causa genetica del sinistro.

 In altre parole, fra due eventi (pur astrattamente ipotizzabili ciascuno come evento di per sè produttivo di danno) legati da rapporto di causalità, solo il secondo, causato dal primo, può essere ritenuto elemento del rischio, in quanto è dal verificarsi di esso che scaturisce il danno per l'assicurato.

 In queste ipotesi, se si tratta di qualificazione positiva (rischio assunto) si ritiene che l'assicurato debba provare non solo il verificarsi del rischio coperto, ma anche la sua causa; mentre è l'assicuratore a dovere provare che la causa del sinistro lo rende non indennizzabile, nell'ipotesi di qualificazione negativa (rischi esclusi).

 Oltre alle delimitazioni del rischio convenzionalmente fatte dalle parti mediante qualificazioni positive o negative, esistono quelle previste direttamente dalle legge. A titolo esemplificativo, possono indicarsi il dolo e la colpa grave del contraente, dell'assicurato o del beneficiario (art. 1900 cod. civ., salvo il patto contrario per la colpa grave), il vizio intrinseco della cosa assicurata non denunciata all'assicuratore (art. 1906 cod. civ., salvo il patto contrario), i danni determinati da terremoto,, guerra, insurrezione e tumulti popolari (art. 1912 cod. civ., salvo il patto contrario). Tali circostanze sono ritenute esser considerate dal legislatore come fatti impeditivi del sorgere del diritto all'indennità, e come tali da provarsi dall'assicuratore (FANELLI, Le assicurazioni, in Trattato di dir. civ. e comm. a cura di CICU e MESSINEO, 134 ss.).

 Nel settore delle assicurazioni marittime corpi, la giurisprudenza ha individuato quale criterio di delimitazione del rischio assunto dall'assicuratore la innavigabilità della nave alla partenza dovuta a colpa dell'assicurato (cass. 2/3/1973, n. 572, in Dir. mar. 1974, 306, con nota di BOI). La conseguenza dovrebbe quindi essere la necessità che sia l'assicuratore a provare l'esistenza di una innavigabilità alla partenza, nonché il fatto che tale innavigabilità fosse scopribile dall'armatore con l'ordinaria diligenza.

 Tuttavia, la giurisprudenza non è mai giunta a tali logiche conseguenze. Pur avendo in passato (ed anche nella sentenza che si annota) specificato con dovizia di particolari in cosa si concretizzi l'obbligo dell'assicurato di porre la nave in stato di navigabilità, è rimasta poi sul vago allorché si è trattato di affrontare lo specifico problema sotto l'aspetto probatorio.

 Così come la precedente sentenza 572/1973, anche la presente appare al riguardo del tutto insoddisfacente. Al di là dell'ovvia constatazione che la prova dell'innavigabilità escluderebbe l'esistenza del rischio coperto, e che correlativamente la prova dell'inesistenza dell'innavigabilità condurrebbe a ritenere il rischio coperto quale causa del sinistro, la sentenza non sembra dare indicazioni specifiche per risolvere il problema della ripartizione dell'onere probatorio. E se qualche indicazione può rilevarsi dalla sentenza, essa è in senso contrario a quanto poc'anzi esposto circa l'onere della prova sui fatti delimitativi del rischio.

 La corte di cassazione ha infatti censurato i giudici d'appello laddove non hanno ammesso, senza alcuna motivazione, le prove dedotte dall'armatore in tema di navigabilità alla partenza; con ciò suggerendo, di fatto, che debba essere l'assicurato a provare tale navigabilità, e non l'assicuratore a provare la innavigabilità colpevole quale evento impeditivo della sua responsabilità.
 

 2. OBBLIGO DI APPRONTARE LA NAVE IN STATO DI NAVIGABILITA' ALLA PARTENZA ED I "PERILS OF THE SEA": RAPPORTI FRA NORMATIVA ASSICURATIVA E NORMATIVA IN TEMA DI TRASPORTO MARITTIMO.

 Ben più soddisfacenti le statuizioni della corte di cassazione in merito ai contenuti dell'obbligo di porre la nave in condizioni di navigabilità alla partenza; cosa questa particolarmente importante trattandosi, nel nostro ordinamento, di concetto di elaborazione giurisprudenziale.

 La sentenza odierna si riallaccia infatti alla precedente sentenza 2/3/1973, n. 572, in cui tale concetto era stato sviluppato e specificato. In tale pronuncia la corte aveva stabilito anzitutto che la eventuale innavigabilità della nave si pone come criterio di delimitazione del rischio assunto dall'assicuratore. Aveva inoltre stabilito che l'obbligo incombente sull'assicurato di approntare la nave in stato di navigabilità, sia alla partenza che in ciascuno degli eventuali scali intermedi, non deve essere inteso in senso assoluto, ma deve essere valutato con riguardo al particolare impiego cui la nave è destinata (art. 164 cod. nav).

 Peraltro, non qualsiasi ipotesi di innavigabilità oggettiva della nave alla partenza conduce alla inoperatività della copertura assicurativa, ma soltanto quella scopribile dall'armatore con la normale diligenza. Si tratta quindi di innavigabilità dipendente da colpa dell'assicurato, intesa come difetto della normale diligenza; la quale ultima deve essere valutata sulla base delle conoscenze e possibilità tecniche dell'armatore medio, che può anche delegare ad altri le verifiche ed i controlli necessari alla bisogna (sostanzialmente, si tratta del contenuto della Inchmaree Clause dei formulari britannici).

 Da ciò la corte ha tratto come conseguenza che "i danni e le spese subiti dall'assicurato, ancorché dipendenti da innavigabilità della nave alla partenza o negli scali intermedi, fruiscono della copertura assicurativa: a) quando la innavigabilita' dipenda da vizio della nave (compresa la vetusta e l'usura derivante dal suo normale impiego), salvo che questo fosse scopribile dall'assicurato mediante l'uso della normale diligenza; b) e quando la innavigabilita dipenda da colpa del comandante o dell'equipaggio (ed, in genere, dei preposti dell'assicurato), salvo che questi ne sia stato partecipe" (cass. 2/3/1973, n. 572).

 In tale sentenza, la corte aveva indicato (più che altro a fini descrittivi) una corrispondenza fra l'obbligo porre la nave in stato di navigabilità alla partenza incombente sull'assicurato con l'analogo obbligo incombente sul vettore ai sensi dell'art. 421 cod. nav..

 La sentenza oggi in esame si è premurata di specificare i limiti di tale analogia, precisando che la corrispondenza con le norme sul trasporto marittimo non si estende alle ulteriori conseguenze da queste ultime dettate in tema di onere probatorio e pericoli eccettuati. Considerazione del tutto esatta, se non altro per la diversa ratio legis ispiratrice delle norme sul trasporto; e tutto sommato opportuna, per la tendenza di giurisprudenza (quale la sentenza impugnata) e di parte della dottrina ad ipotizzare una piena equiparazione fra aspetti della disciplina del trasporto marittimo e quella dell'assicurazione corpi (cfr. BOI, "Seaworthiness" e "Due Diligence" nell'assicurazione corpi e nel trasporto marittimo di cose, in Dir. Mar. 1974, 306, nota a cass. 572/1973). Una cosa è infatti un mero rinvio all'art. 421 cod. nav. per indicare, sotto l'aspetto descrittivo, cosa si intenda per navigabilità della nave; un'altra è invece riferirsi alla disciplina dettata dalle norme sul trasporto per i rapporti fra questi e l'avente diritto al carico, atteso che i rapporti fra assicurato ed assicuratore in tema di navigabilità della nave sono già specificamente regolamentati dall'art. 525 cod. nav.

 Di fatto, peraltro, la stessa pronuncia che si annota sembra smentire, in tema di onere probatorio, tale propria enunciazione di principio. Come visto, infatti, la sentenza di appello è stata cassata laddove non ha consentito all'armatore la positiva prova della navigabilità della nave alla partenza. Ciò corrisponde in concreto alla prova richiesta al vettore in relazione al medesimo argomento; con la differenza che mentre nel trasporto la navigabilità della nave costituisce una vera e propria obbligazione contrattuale del vettore (ed essendo tale ne deve essere dimostrato l'adempimento), nell'assicurazione essa sembrerebbe doversi considerare una delimitazione legale del rischio (cosi' cass. 2/3/73 n. 572 che peraltro nel proprio testo la indica anche come obbligo dell'assicurato) o, volendo seguire l'ordinamento inglese, una "Implied Warranty" secondo il Marine insurence act; il che potrebbe rendere dubbio debba essere provata dall'assicurato.

 La corte di cassazione ha altresì puntualizzato come il termine peril of the sea non corrisponde affatto alla fortuna di mare previsto quale pericolo eccettuato nel regime di responsabilità del vettore; e ciò non solo nel diritto italiano, ma anche nella prassi assicurativa e nel diritto inglese, da utilizzarsi, come visto, per interpretazione del formulario I.T.C.H.

 In effetti il legislatore italiano, pur ispirandosi nella redazione del codice della navigazione alla convenzione di Bruxelles del 1924 sulla polizza di carico, ha unificato fra i pericoli eccettuati l'Act of God e i Perils of the Sea (previsti dall'art. IV, n. 2, rispettivamente lett. "d" e "c") nell'unica e più grossolana dizione di fortuna di mare (cfr. RIGHETTI, Trattato di diritto marittimo, II, 1990, 741 ss.). Il diritto e la prassi inglese mantengono invece salda la distinzione fra Act of God, inteso come "accidente o evento che accade indipendentemente dall'intervento mano e dovuto a cause naturali incontrollabili" e i "Perils of the Sea", intesi come "Pericoli ed accidenti dei mari, dei fiumi e della navigazione, di qualsivoglia natura e genere" (per i riferimenti, RIGHETTI, op. cit., 744 ss.. FERRARINI, op. cit. 1991, III ss).

 Ne consegue che la corretta interpretazione del termine Perils of the Sea secondo la prassi assicurativa anglosassone non implica necessariamente l'esistenza di una tempesta oggettivamente considerata, ma qualsiasi avversa condizione meteomarina che, diversa dalla calma, in relazione alle condizioni della nave (dimensioni, età, etc.), sempreché essa fosse navigabile alla partenza, possa provocare danni alla nave diversi da quelli provocati dall'azione ordinaria del vento e delle onde.
 

III. I precedenti

 In relazione alla suddivisione degli oneri probatori in tema di assicurazione marittima, strettamente connesso con quello del nesso causale, il cammino della giurisprudenza italiana è stato piuttosto tormentato. La primitiva interpretazione tradizionale, sulla base dell'art. 521 cod. nav., accollava all'assicurato l'onere di provare che un danno si fosse verificato nel corso della copertura assicurativa; mentre all'assicuratore spettava provare la dipendenza del sinistro da un rischio specificamente escluso, o che sussisteva una causa generale di inoperatività della copertura (cass. 19/1/1950, n. 157, in Foro it. 1950, I, 412, con nota di FERRARINI). In seguito, sulla base degli affinamenti concettuali proposti dalla dottrina, sono sorti una serie di orientamenti che diversamente risolvevano il problema dell'onere probatorio in presenza di rischi qualificati positivamente o negativamente (si veda, per approfondimenti al riguardo, RIGHETTI, Trattato di diritto marittimo, III, 1994, 1308 ss.). La giurisprudenza ha al riguardo fatto uso dei criteri più disparati, ricorrendo altresì a presunzioni di dubbio fondamento normativo (si veda, per riferimenti, RIGHETTI, op. ult. cit., 1308); talché, al momento, non appare possibile indicare un indirizzo prevalente, o criteri ben specifici. La stessa sentenza in esame, come visto, non prende una specifica posizione definita.

 La giurisprudenza inglese, dopo varie oscillazioni, sembra aver invece raggiunto un punto fermo con il Popi M (pubblicato in Dir. mar. 1986, 169, con nota di BOGLIONE), cui la sentenza di primo grado della presente vicenda era esplicitamente ispirata.

 In relazione ai criteri interpretativi delle clausole di formulari inglesi inseriti in polizze italiane, la sentenza rappresenta un equilibrato punto arrivo di un travagliato tragitto della giurisprudenza di merito oscillante fra estremi opposti. Partita dalla più completa negazione della possibilità di utilizzare i principi di ermeneutica in uso nei paesi d'origine delle clausole straniere richiamate dalle parti (App. Milano 9/6/1972, in Dir. mar. 1972, 612), la giurisprudenza di merito si è via via appassionata alle tesi della dottrina, fino a superarla di slancio e ritenere financo che la scelta di formulari stranieri potesse considerarsi implicita scelta di far regolare il rapporto dalla legge del paese d'origine dei formulari prescelti (cfr. App. Genova 3/3/1973, in Dir. mar. 1973, 271, in tema di contratto di trasporto).

 Le sentenze di merito che hanno condotto alla presente sentenza sono un chiaro esempio di tali estremistiche posizioni; basti pensare che i giudici di primo grado, oltre ad argomentare esplicitamente sulla base del Marine Insurance Act inglese, si erano spinti ad affermare la recepibilità in via convenzionale del noto precedente inglese "Popi M", pur essendo dalle parti espressamente dichiarato che il rapporto era regolato dalla legge italiana!

 La presente sentenza ha quindi l'indiscusso merito di riportare la questione nell'ambito delineato dalla migliore (e piu' ponderata) dottrina, la cui sintesi può rinvenirsi nel lodo arbitrale 11/3/1982 Golfo di Palermo (in Dir. Mar. 1982, 276, con nota di BOGLIONE), alle cui massime sostanzialmente è conforme.

 Infine, resta da segnalare che la sentenza tocca indirettamente il tema del valore probatorio dei certificati di classe in relazione alla navigabilità della nave; argomento estremamente delicato, in cui la giurisprudenza non ha ancora raggiunto soluzione univoca. Basti pensare che lo stesso tribunale di Genova, in relazione alla stessa nave ed allo stesso avvenimento, mentre nel giudizio nei confronti degli assicuratori (da cui trae origine la sentenza sotto esame) negava che i certificati di classe potessero costituire presunzione di navigabilità alla partenza (trib. Genova 28/10/1989, in Dir. Mar. 1990, 395), nel giudizio di opposizione alla sentenza di apertura del procedimento per la limitazione del debito dell'armatore affermava esattamente il contrario (trib. Genova 6/6/1991, in Dir. mar. 1993, 753).
 

IV. La dottrina

 La edizione 1.10.1983 del formulario I.T.H.C. è stata appena sostituita dalla nuova edizione 1.11.1995, il cui testo è pubblicato sulla rivista Diritto dei trasporti, 1996, 670.

 Sulle I.T.C.H. edizione 1.10.1983 si segnala FERRARINI, Le assicurazioni marittime, II, Milano 1984, 61 e segg., che pubblica anche il testo integrale del formulario a pag. 126; CRUMP, The new Hull Cover, Londra 1983; GOODACRE, Institute Time Clasues - Hulls, Londra 1983; SICCARDI, Le nuove Institute Time Clauses - Hull, in Dir. mar. 1984, 975.

 Sulle problematiche circa la determinazione della legge applicabile ai formulari alle polizze assicurative includenti formulari anglosassoni (su cui si rinvia per i dettagli all'ampia trattazione di RIGHETTI, Trattato di diritto marittimo, III, 1994, 1165 ss), il problema è stato spesso studiato in stretta connessione con quello della legge applicabile (CARBONE, Legge regolatrice del contratto di assicurazione e rinvio a formulari inglesi, in Dir. mar. 1984, 700).

 Escluso che il mero recepimento di un formulario straniero possa valere quale scelta pattizia della legge regolatrice del rapporto, FERRARINI, Le assicurazioni marittime, 1981, 22), la migliore dottrina si è orientata nel senso che le clausole inglesi inserite in polizze italiane debbano essere interpretate nello stesso modo e con lo stesso significato che hanno nel loro paese d'origine (FERRARINI, Polizze tipo italiane e clausolari inglesi di assicurazioni marittime, in Assicurazioni 1981, 125 ss.).

 La questione è peraltro passata oggi in secondo piano in virtù delle modifiche apportate, sulla scia di tali posizioni dottrinali, alla Polizza di assicurazione marittima su corpo e macchine", ed. ANIA il cui art. 2 prevede esplicitamente l'applicabilità della legge italiana, e l'applicazione e interpretazione dei formulari inglesi secondo quella in uso in Inghilterra. (Sulle vicende inerenti all'adozione di tale formulazione contrattuale si veda RIGHETTI, Trattato di diritto marittimo, III, 1994, 1175 ss.)

 Il parallelismo fra normativa assicurativa e normativa in tema di trasporto in relazione alla navigabilità della nave ed agli obblighi di diligenza dell'armatore (suggerito dalla sentenza cass. 2/3/1973, n. 572 e ben precisato nei limiti dalla pronuncia qui esaminata), ha suscitato a suo tempo l'entusiasmo di una dottrina (BOI, "Seaworthiness" e "Due Diligence" nell'assicurazione corpi e nel trasporto marittimo di cose, nota a cass. 2/3/1973, n. 572, in Dir. mar. 1974, 306), che è giunta ad affermare la necessità di fare riferimento, in campo assicurativo, non solo al concetto di diligenza richiesto nel trasporto per la navigabilità della nave, ma addirittura "a tutti i principi esistenti in materia, riferentisi al vettore, ed applicarli direttamente alla figura dell'assicurato (ivi, 315). Quest'ultima tesi, che fin dalla sua formulazione ha destato più di una perplessità, non ha avuto particolare seguito in dottrina, e risulta aver avuto scarso seguito giurisprudenziale (si possono citare le sentenze di merito cassate dalla pronuncia in esame).

 Più esatti invece i rilievi di detta dottrina circa il parallelismo fra normativa assicurativa e normativa trasportistica in tema di Inchmaree Clause (BOI, op. cit., 319), con interessanti riferimenti ai rapporti con l'art. 52 cod. nav.. Sulla Inchmaree Clause in generale si rinvia alle relative voci di GAETA, in Enc. dir., XXI, 1971, 1, e di ZUNARELLI, in Digesto, disc. priv., sez. comm., VII, 1992, 301, con relativi riferimenti; nonché a FERRARINI, Le assicurazioni marittime, I, Milano 1981, 118 ss. Si veda inoltre ARNOULD, The Law of Marine Insurance and Average, II, 1981, 688, e HARDY IVAMY, Marine Insurance, 1985, 158.

 

(Enzo Fogliani)

Vai all'articolo in PDF scarica sentenza e articolo in pdf  Vai all'articolo in PDF



 

Motore di ricerca:


Ultimo aggiornamento effettuato il 24.7.2017