dott. Danilo Galletti
Cybersearch. / Francesca Sansone
Nel procedimento cautelare avente ad oggetto inibitoria industriale promosso da CYBERSEARCH s.a. nei confronti di SANSONE Francesca, R.G. n. 3522/01,
ORDINANZA
1)- Sulla legittimazione attiva di cybersearch. - in via pregiudiziale deve rilevarsi l'infondatezza dell'eccezione di carenza di legittimazione attiva in capo a Cyberserach s.a.: infatti il documento allegato alla memoria 17.5.01, portante in calce la data del 11.5.01, e consistente in una visura delle risultanze del Registre de Commerce francese, riporta l'avvenuta variazione della denominazione sociale da Advice a Cybersearch, datandola 17.2.00 (deposito avvenuto il 22.3.00, in modo conforme a quanto sostenuto nel ricorso); il documento è utilizzabile in questo giudizio (ove il modulo di cognizione è "sommario", benchè proveniente da un'autorità amministrativa estera, e non prodotto in "originale" (d'altro canto, avendo il documento valore di certificazione, l'originale consiste propriamente nella. dichiarazione dell'autorità relativa al fatto del quale ha contezza, a meno di non contestare la provenienza dell'atto, con l'onere tuttavia di fornire idonei elementi atti a suffragare l'affermazione);
il documento allegato viceversa dalla resistente il 22.5.01 (a prescindere dal fatto che era stato autorizzato unicamente il deposito di una memoria illustrativa, e non di documentazione) non può ritenersi prova contraria, non consistendo in una visura "storica" del soggetto iscritto (ragion per cui è logico che non riporti in modo completo le vicende pregresse);
2) Sulla natura arbitrale del procedimento di cui aIl'art.15 delle Regole
di Naming. - appare fondata invece l'eccezione di parte resistente
relativa alla pendenza di giudizio arbitrale irrituale relativo alla stessa
controversia qui azionata in sede cautelare; la resistente
infatti ha dimostrato l'avvio del procedimento
arbitrale previsto dall'art. 15 delle regole di
Naming (prodotte in parte dalla ricorrente, ma agevolmente reperibili all'interno
del sito www.nic.it, sì da considerarsi rientranti addirittura nella
sfera del "notorio"), da parte della stessa ricorrente, ove le argomentazioni
esposte sono sovrapponibili in buona sostanza a quelle redatte a corredo
del ricorso; il procedimento in questione appare
qualificabile effettivamente come arbitrato irrituale,
in sintonia con la definizione in tal senso contenuta nelle
stesse regole del Naming, atteso che, nonostante l'utilizzo
diffuso di espressioni
linguistiche tipiche dell'attività giurisdizionale,
dirimente risulta la previsione di poteri'" cautelari" in capo
al collegio arbitrale in pendenza della procedura
(art. 15.5); infatti, com'è noto,
tale potestà è preclusa
nell'arbitrato rituale dall'art. 818 c.p.c.,
sicché l'interpretazione della clausola, nel
senso che la stessa possa avere un'efficacia giuridica (arg.
ex art. 1367 c.c.), deve condurre alla qualificazione
in termini di irritualità; in sostanza la clausola compromissoria
in questione risolve il problema, caratteristico
dell'arbitrato irrituale, della compatibilità del modulo di soluzione
pattizio della controversia eletto dalle parti
con l'eventuale insorgere di esigenze
di urgenza, abilitando il collegio decidente a
porre in essere decisioni interinali e provvisorie, sempre
basate sul consenso preventivo delle parti, ed aventi natura ed efficacia
contrattuali; la inesecutività con i mezzi giurisdizionali
dei provvedimenti in questione nel frangente è
supplita dalla competenza ad attuarli in capo ad un soggetto terzo inter
partes (la RA), che garantisce l'ottemperanza spontanea;
questo Giudice reputa altresì che identica sia la causa petendi
dei due "giudizi" (in caso contrario, se cioè il Collegio arbitrale
dovesse decidere sulla base di disposizioni esclusivamente
contrattuali, nessun ostacolo potrebbe sorgere sul piano della disponibilità
della tutela cautelare ordinaria a tutela dei diritti assicurati dall'ordinamento
giuridico generale: cfr. i rapporti fra il Giurì del CAP e la tutela
ordinaria davanti al Giudice, sulla base della disciplina sulla proprietà
industriale e sulla concorrenza sleale);
infatti il Collegio arbitrale decide "secondo equità", sulla
base delle regole di naming e delle norme
dell'ordinamento italiano (art. 15.6); analoga conferma nasce dall'esame
della procedura "amministrativa" di cui all'art. 16, ove la
sovrapponibilità dei termini giuridici è ancora
più evidente, e si menzionano appunto alla
tutela del marchio contro l'uso confusorio del dns (art. 16.6,
norma che la stessa ricorrente, nell'atto di nomina del
proprio arbitro, reputa applicabile altresì al procedimento
ex art. 15);
al riguardo non è decisivo che la ricorrente agisca qui per
chiedere la inibitoria all'uso del segno, laddove nel procedimento
arbitrale il petitum è ovviamente soltanto la riassegnazione
del nome di dominio fatto costitutivo di entrambe
le pretese è infatti, chiaramente
ed inequivocamente, la tutela del marchio Cybersearch contro la
contrattazione a mezzo di gestione di sito web,
sicché alcuna causa di merito potrebbe essere
instaurata davanti all'Autorità Giudiziaria
all'esito della concessione della cautela invocata;
addirittura, l'oggetto dei procedimento
arbitrale appare più ampio, siccome esteso, in ipotesi, altresì
alle situazioni ove il domain name è stato registrato, eppure non
viene di fatto utilizzato, restando il sito inattivo; in queste ipotesi
problematica sarebbe la tutela del segno distintivo, laddove
la procedura di cui all'art. 15 assicura all'instante
una tutela "anticipata" rispetto all'uso effettivo confusorio
ogni perplessità sul fatto che,
evidentemente, la tutela cautelare giurisdizionale offerta dal settore
normativo specifico dei marchi registrati (artt. 61 ss. l. mar.) offre
strumenti più efficaci e di più ampia portata, non può
essere nemmeno prospettata, atteso che l'inconveniente discende
dalla scelta di parte ricorrente di sottomettersi
alla procedura arbitrale, così "rinunziando"
pro tempore alla tutela giurisdizionale;
ne discende com'è noto la sospensione della tutela
cautelare davanti al Giudice Ordinario; infatti con il compromesso
in arbitrato irrituale le
parti "rinunziano" alla tutela giurisdizionale (cfr. Cass., n.
12225/1995; 6757/1993), almeno fintantoché
non sopravvenga la pronunzia arbitrale; i firmatari del compromesso
insomma tutelano le proprie posizioni giuridiche
surrogando negozialmente l'attività
giurisdizionale del magistrato, anche se probabilmente ciò non configura
già una vera e propria "rinunzia" alle situazioni giuridiche processuali
implicate, come invece ritiene la giurisprudenza appena
richiamata, bensì solo un "rinvio" della tutela giurisdizionale
ad un momento successivo, dopo la pronunzia del lodo,
sicché la dottrina ha efficacemente potuto affermare ché
l'azione di cognizione è allo stato
solo "prematura";
ne discende comunque, in entrambe le configurazioni
teoriche, la carenza attuale dell'interesse ad agire da parte dell'attore,
tanto nella causa di merito quanto in quella cautelare, attivata ante causam;
l'improponibilità attuale della causa di merito cagiona infatti
la inammissibilità anche della fase cautelare, che dopo la riforma
del 1990 presuppone espressamente ed inderogabilmente la
successiva ed immediata introduzione della pretesa in
sede ordinaria, persino in quei giudizi, come quello
possessorio, ove in precedenza sembrava potersene prescindere
(v. la nota Cass., sez un., n. 1984/1998; l'omessa instaurazione
del giudizio di merito, e l'impossibilità di iniziarlo al fine di
ottenere un'improbabile "sospensione" dello stesso (ex artt. 295 o 296
c.p.c.), comporta infatti senza eccezioni l'inefficacia
del provvedimento cautelare reso (artt. 669 octies- novies c.p.c.);
in tal senso si è pronunziata del resto la più recente giurisprudenza
(Cass. nn.12225/1995; 6757/1993,citt.; Trib. Bologna, 23 giugno 1997,
13 gennaio 1997; Trib. Torino, 14 aprile 1997; Trib. Reggio Emilia, 26
luglio 1996; Trib. Vercelli, 20 agosto 1996;
Trib. Torino, 4 dicembre 1995; Trib. Verona, 18 ottobre 1993; Trib, Milano,
29 settembre 1993; contra, isolatamente, Trib. Velletri, 13 novembre 1995);
d'altro canto le norme contenute
negli artt.669 quinquIes e octies, ult. cpv., c.p.c., sono ritenute
pressoché pacificamente applicabili alla sola varietà di
arbitrato "rituale"; un argomento a conferma di quest'impostazione
discenda altresì dall'art. 669
novies1 ult. co., n. 1, sebbene si
sia dubitato persino della sua vigenza, per l'apparente contrasto
con l'abolizione del termine annuale per il deposito del lodo, ai fini
dell'exequatur, operata dalla 1. n. 25/1994, dubbio peraltro
fugato dalla più recente dottrina, che rileva
opportunamente la diversità dei relativi piani concettuali;
rileva poi il G.p.c. che, se è vero che talvolta la giurisprudenza
ha osservato che "in presenza di patto per arbitrato irrituale le parti
non possono invocare la tutela cautelare se non prospettando, in
funzione del futuro giudizio di merito, la caducazione del medesimo
patto per motivate ipotesi di risoluzione" (Trib. Bologna
23 giugno 1997, cit.), ciò appare
possibile, in astratto, per l'intervenuto
mutuo dissenso (art. 1372 c.c.) rispetto al compromesso, o a condizione
che sia effettivamente dimostrata la ricorrenza
di un alterazione della "base negoziale" e della causa del negozio compromissorio,
tale per cui la rimozione dello stesso ripristini la normale sfera di tutela
giurisdizionale; ciò può avvenire attraverso la prospettazione
di un fatto, comune ad entrambe le parti,
e non dipendente dalla volontà delle stesse, nella cui presupposizione
esse abbiano stipulato l'accordo; si potrebbe ad es.
dimostrare che la clausola arbitrale fu pattuita nella presupposizione
della non verificazione delle circostanze che rendono all'attualità
urgente, e non procrastinabile,
l'intervento del giudice in sede cautelare,
con ampiezza di poteri coercitivi; in tale situazione il G.p.c.
potrebbe al limite adottare provvedimenti provvisori
ed urgenti, funzionali alla conservazione delle ragioni
del ricorrente, e nella prospettiva de1l'assicurazione
degli effetti del giudizio di merito finale, che contempli
altresì la risoluzione del suddetto accordo per i motivi
appena enunziati;
d'altro canto non può essere condiviso
il recente suggerimento dottrinale di addivenire,
in queste ipotesi, a quanto pare per la sola integrazione del presupposto
dell'urgenza, alla dichiarazione di
scioglimento del contratto per l'impossibilità dello stesso di assecondare
la sua funzione tipica, posto che nel nostro ordinamento
la sopravvenuta "inutilità" dell'obbligazione
contratta produce effetti solo in coincidenza con la
impossibilità della stessa (art. 1256 c.c.) la quale richiede
ben altre e più radicali ragioni giustificative;
nulla di tutto ciò è predicabile tuttavia nel presente
giudizio, ove anzi la configurazione del compromesso in termini
tali da prevenire eventuali
necessità "urgenti", priva di base fattuale qualunque eventuale
argomentazione fondata sulla clausola rebus
sic stantibus
3) Sull' interesse ad agire di Cybersearch
e sulla ricorrenza del periculum in mora. - ancora in
via preliminare deve osservarsi come questo Tribunale, in sintonia
con gli orientamenti dominanti della dottrina e della giurisprudenza, abbia
già affermato decisamente la natura di segno distintivo del domain
name secondario (Trib. Monza, 25.1l.OO, Hachette Filipacchi Presse s.a.-Gestioni
Radiotelevlsive -s.r.l.; sul punto non occorre più dilungarsi;
va invece osservato, ad ulteriore conferma della non ricevibilità
del ricorso, che in questo procedimento ha agito esclusivamente
cyberserach s.a., società di diritto francese
non stabilita, apparentemente, nel nostro paese;
la stessa indica espressamente come soggetto richiedente
la registrazione del domain name, ed interessato pertanto
all'utilizzo dello stesso, evidentemente per l'esercizio in
Italia dell'attività tipica di recruiting on line descritta nel
ricorso, la società controllata Cybersearch Italia s.r.l.;
appare evidente allora che, soprattutto
in sede cautelare, il soggetto che può affermare l'incidenza
a proprio svantaggio di un pregiudizio grave
ed irreparabile potrebbe essere solo
e solamente cybersearch Italia s.r.., e non già la controllante
francese, del resto titolare del marchio;
in sostanza, se anche in astratto fosse da affermarsi la contraffazione
del marchio, non potrebbe certamente negarsi la legittimazione della titolare
dello stesso ad agire in sede ordinaria per reprimere la lesione della
privativa; e tuttavia nessun periculum in mora sussisterebbe nei
confronti della stessa, che non esercita (sulla
base delle stesse allegazioni attoree) alcuna attività in Italia;
diversa potrebbe essere la situazione non tanto se la controllata fosse
licenziataria italiana del marchio (circostanza probabile, ma irrilevante,
atteso che la medesima non ha agito in giudizio, quanto se fosse
stata allegata l'esistenza di un rapporto tale per il danno subito
dalla società italiana si ripercuota immediatamente sulla controllante;
ma nulla in tal senso si rinviene in atti;
in ultima analisi, sembrerebbe che la ricorrente si dolga in realtà
della mera compressione della capacità del marchio di svolgere un'efficace
funzione attrattiva" in Italia (c.d dilution), rivendicando
tuttavia una tutela "allargata" concessa soltanto al titolare del marchio
"rinomato" ai sensi della lett b del'art.1 l. mar., al riguardo
è opinione del giudicante, fondata sull'esame
sistematico della 1. mar., dei lavori preparatori,
nonché della Direttiva comunitaria del 1988, che
la nozione di "rinomanza" debba essere intesa in termini meno
rigidi rispetto all'elaborazione precedente che aveva riguardato
i marchi 2celebri" o "supernotori" (e che presuppone ad es. 1'art.
6 bis della Convenione di Unione di Parigi, non a caso citata con caratteri
di autonomia dalla nuova 1. mar. a fianco del segno "rinomato": cfr. art.
17, lett. b);
al riguardo non sembrano da sposare ne' la prospettiva radicale per
cui il marchio rinomato necessiterebbe di essere conosciuto dalla maggior
parte dei consumatori in generale, senza distinzioni
merceologiche (c.d. opzione "tedesca"), ne' quella per cui qualunque
marchio utilizzato di fatto, e pertanto reso
"noto" al pubblico, potrebbe giovarsi della tutela "allargata"
(c.d. opzione "olandese", fondata non a
caso su suggestioni provenienti da
un ordinamento che attribuisce al marchio
una funzione "attrattiva" autonoma ed ulteriore rispetto a
quella distintiva, tutelando il titolare contro il rischio di dilution
in sé);
se per ogni segno originale infatti,
anche a prescindere dalla fungibilità fra i prodotti,
e dal pericolo di ingenerare confusione, fosse
tutelato l'interesse del titolare a
non subire un depotenziamento della
carica attrattiva extramerceologica del marchio,
sarebbe alterata in modo disfunzionale la concorrenza nel sistema,
attraverso la diminuzione ingiustificata, non compensata da vantaggi significativi,
delle potenzialità che gli operatori possono
ricavare legittimamente dal contesto;
al contrario questo Giudice, recependo del resto una recente
pronunzia della Corte di Giustizia comunitaria (sent. 14 settembre
1999, "General Motors"), le cui statuizioni interpretative
sono vincolanti per le giurisdizioni nazionali che interpretano
la normativa di attuazione dei documenti normativi
comunitari, ritiene che sta sufficiente, per riprendere il citato arresto,
una conoscenza da parte di "una parte
significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi. contraddistinti
da detto marchio", elemento da rilevarsi attraverso l'esame de "la quota
di mercato coperto, l'intensità, l'ambito geografico e la durata
del suo uso, nonché l'entità
degli investimenti realizzati dall'impresa per promuoverla";
e tuttavia gli elementi discriminanti di cui sopra non sono stati nè
allegati (se si esclude l'affermazione dei rilevanti
investimenti effettuati, tuttavia non supportata da alcun
argomento probatorio> nè tantomeno provati dalla ricorrente;
4) Sulla contrattazione del marchio Cyber search e sulla confondibilità.
- questo Giudice deve poi rilevare ad abundantiam che anche
nel merito il ricorso non sembrerebbe assistito
dal requisito del fumus boni iuris, infatti, anche
se non possono condividersi le argomentazioni
di parte resistente in ordine alla novità
e capacità distintiva del marchio da valutarsi nel suo
complesso, e non già disgiuntamente,
in relazione ad ogni singolo termine linguistico, cosicché all'agglomerato
di per sè nuovo Cyber search non può negarsi una capacità
distintiva minima, sufficiente a qualificarlo quantomeno come marchio debole,
tutelato almeno contro la contraffazione integrale), nonché alla
somiglianza dei segni (essendo la
riproduzione praticamente pedissequa, senza che si possa attribuire alcuna
importanza discriminante alla congiunzione dei due termini ed all'aggiunta
del suffisso .it, che non vengono ricevuti dai destinatari della comunicazione
che si avvale di Internet come
elementi di differenziazione rilevanti),
difetta in maniera evidente l'affinità fra
i servizi "veicolati" dai due segni distintivi, sicché alcun
pericolo confusorio è prospettabile;
infatti mentre la ricorrente gestisce un servizio di intermediazione
nella ricerca e nell'offerta di lavoro, scopo del sito gestito dalla Sansone
è esclusivamente (e la circostanza non è stata nemmeno contestata)
la ricerca di titoli letterari inerenti al settore della fantascienza;
infatti l'attitudine confusoria dev'essere apprezzata in relazione
alla destinazione, almeno potenziale ed indiretta, delle
due attività commerciali alla soddisfazione dei
medesimi bisogni degli utenti finali; si pensi, per fare un esempio,
all'incongruità, ed all'irrazionale effetto monopolistico,
della eventuale tutela del marchio registrato da un mediatore in un settore
merceologico particolare contro un operatore che si avvalga
di segno analogo per svolgere un'attività
di intermediario in settore completamente diverso;
nessuna affinità è pertanto predicabile
sarebbe incongruo, e strumentale in realtà alla concessione di una
tutela concessa ormai soltanto ai segni "rinomati", ritenere affini
i due servizi basandosi sulla mera caratteristica comune
di espletare un servizio di ricerca di dati;
e questo pur senza dover condividere l'affermazione di parte resistente
per la quale l'utente Internet sarebbe un destinatario di Comunicazioni
commerciali fornito di particolari capacità di attenzione;
e non è possibile infatti attribuire all'utente Internet capacità
di discernimento superiori alla media, non essendo
la capacità tecnica di utilizzo di un bene sofisticato di per sé
indice rivelatore dì maggiore "resistenza" all'inganno confusorio;
occorrerà allora discriminare, all'interno della classe di utenti
(ormai tale da confondersi con il novero
generale dei consumatori), fra le singole categorie merceologiche,
more solito; non si ricava allora dal tipo di servizi offerti
dalle parti una tipologia dl
fruitore particolarmente sofisticato od "esoterico",
tale da comportare comunque una
valutazione di non ingannevolezza nella comunicazione
del segno usurpato, senza contare come l'analisi economica del diritto,
in relazione ai fenomeni
di misreapresentation pubblicitaria, abbia ormai
dimostrato l'inefficienza dell'allocazione in capo al destinatario
del messaggio ingannevole di oneri di solidarietà particolari);
tutto da dimostrare, poi, è che il rilevamento del sito organizzato
dalla resistente attraverso un motore di ricerca od uno spider sia idoneo
a rendere trasparente la differenza di contesto, attesa la sinteticità
del report dello strumento di ricerca, tale da non rendere necessariamente
il navigatore edotto del tenore reale del sito;
d'altro canto, i presupposti tipici del grabbing o del cybersquatting,
pur implicitamente adombrati fra le righe
del ricorso, non sono stati né
allegati nè dimostrati in termini oggettivi;
la integrale reiezione del ricorso fa scaturire
la condanna alle spese, liquidate in dispositivo;
P Q.M.
1) rigetta il ricorso;
2) Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite, che liquida in £ 240.000 per spese, £.1.000.000 per diritti, f 5.000.000 per onorari, oltre a IVA e CPA.
Si Comunichi.
Monza, 26. 5.01
Il G.pc.
dott. Danilo Galletti