Ambiente Mare Mediterraneo |
11/3/1996 | Roma |
Non è questa la sede, per i ristretti limiti di tempo, per dare una panoramica della complessa normativa esistente in materia di inquinamento marino (1), panoramica che finirebbe per risolversi in una noiosa elencazione di leggi, convenzioni e regolamenti.
I precedenti relatori hanno già toccato svariati aspetti delle norme, anche tecniche, volte a prevenire l'inquinamento marino. Mi permetterò quindi di proporre qualche spunto sulle norme inerenti la responsabilità per spandimento di idrocarburi in mare e relativi aspetti risarcitori.
Come noto, tali aspetti sono essenzialmente trattati in campo internazionale dalla C.L.C. del 1969 (Convenzione di Bruxelles sulla responsabilità civile per inquinamento da idrocarburi del 29 novembre 1969) integrata dalla I.F.C. del 1971; in campo nazionale dalla legge sulla difesa del mare (L. 31 dicembre 1982 n. 979) e dalla legge istitutiva del Ministero dell'Ambiente (L. 8 luglio 1986, n. 349).
Si tratta di norme fra di loro interagenti e non sempre ben coordinate; aspetto questo particolarmente importante dati i rilevantissimi interessi non solo ecologici ma anche economici che la materia riveste.
Volendo descrivere le linee essenziali della CLC (entrata in vigore nel 1975 e successivamente modificata da protocolli) basterà osservare che essa predispone una disciplina speciale uniforme in materia di responsabilità civile extracontrattuale per danni da inquinamento verificatisi sul territorio o nel mare territoriale e causati da perdita o scarico di idrocarburi, a seguito di incidente, da una nave cisterna che li trasporta alla rinfusa (2).
La convenzione imputa la responsabilità al proprietario della nave cisterna e il regime della responsabilità introdotto da questa convenzione è indubbiamente rigoroso per il numero ristretto di casi di esonero.
La CLC 1969 si colloca nella fase intermedia di un processo evolutivo di oggettivazione della responsabilità extracontrattuale, che non ne favorisce una interpretazione uniforme. Le disposizioni della Convenzione relative alla responsabilità sono state infatti a volte lette in ottica tradizionalistica tendenzialmente soggettiva, che attribuisce alla CLC la istituzione di una responsabilità per colpa sia pure presunta juris tantum; più spesso, sono state lette invece secondo un orientamento più avanzato, che sostiene la introduzione, tramite la CLC, di un regime oggettivo o quasi di responsabilità, seppure non assoluto per l'esistenza di una serie tassativa di esimenti.
Tendenzialmente si può comunque asserire che il criterio adottato dalla convenzione per la imputazione della obbligazione risarcitoria al responsabile dell'inquinamento prescinde dalla verifica della sussistenza della colpa o del dolo e quindi dell'illecito. Anzi, si può osservare che ai fini dell'ottenimento del risarcimento dei danni, a norma della CLC 1969, non risulta neanche indispensabile addurre la prova del nesso causale tra la condotta posta in essere e il danno da inquinamento; pur dovendo naturalmente esistere la prova positiva di un rapporto di causalità tra l'incidente e la fuoriuscita volontaria o accidentale, e poi tra tali perdite e l'inquinamento dannoso.
Pertanto unico e sicuro criterio d'imputazione riscontrabile nel modello di responsabilità extracontrattuale della CLC è una relazione, che la situazione giuridica soggettiva di diritto reale crea, tra la nave - dalla quale provengono gli idrocarburi inquinanti - e il proprietario (3).
Come accennato, tale criterio di imputazione si inserisce nel generale processo di oggettivazione della responsabilità extracontrattuale che trova proprio in materia di inquinamento legato al trasporto l'elemento di punta. Di tale processo evolutivo sono infatti testimonianza le Convenzioni internazionali sulla responsabilità in materia di inquinamento marino da sostanze nucleari (4) che attribuiscono la responsabilità al gerente dell'impianto nucleare di partenza e di destinazione.
Come si vede, si tratta di criteri piuttosto nuovi e non diffusi nel nostro ordinamento, anche se la legislazione interna più attuale in tema di tutela dell'ambiente marino non è rimasta immune da questa responsabilizzazione secondo canoni oggettivi.
Le previsioni della C.L.C., piuttosto complete e sostanzialmente efficaci per quanto attiene l'ambito da esse regolamentato, lasciano peraltro fuori dal loro regime normativo due aspetti che le esperienze successive alla sua entrata in vigore hanno rivelato essere di non secondaria importanza; ovvero sia le responsabilità di altri soggetti che non siano i proprietari della nave (per esempio: l'armatore sulla base di un bare-boat charter, oppure l'utilizzatore della nave sulla base di un contratto di leasing) e, soprattutto, il risarcimento del danno all'ambiente, Non essendo regolati dalla normativa uniforme, tali aspetti sono di competenza delle singole legislazioni nazionali.
Quella italiana, seppur lodevole nelle intenzioni, appare lungi dall'essere soddisfacente. Per quanto attiene il primo aspetto si può osservare che essa per alcuni profili si sovrappone a quanto già regolamentato dalla C.L.C.. La previsione nella normativa nazionale della risarcibilità del danno ambientale da parte di altri soggetti oltre al proprietario (5), come visto unico responsabile ai sensi della C.L.C., porta con sé notevoli perplessità in tema di coordinazione con la normativa internazionale (6), in quanto, se non altro, con ciò si corre il rischio di vanificare le limitazioni di responsabilità previste dalla C.L.C. (7). Ciò porta ad un risultato negativo sotto due profili: da una parte infatti vengono introdotti nei costi del trasporto marittimo di idrocarburi ulteriori elementi di alea e costi più difficilmente preventivabili, e quindi più onerosi da assicurare; dall'altra, si corre il rischio che tali norme estensive della responsabilità a soggetti diversi dal proprietario della nave finiscano con l'essere grida manzoniane, dato che non ci sono certezze circa la solvibilità di tali responsabili del danno (ulteriori rispetto ai proprietari) in relazione agli ingenti risarcimenti cui sarebbero tenuti.
Sarebbe quindi auspicabile un più realistico e meditato coordinamento della normativa interna con quella internazionale (8).
Approfondendo il discorso dei risarcimento del danno ambientale - argomento non coperto dalla C.L.C. - abbiamo anticipato che la normativa interna è senz'altro piena di buone intenzioni ma di dubbia efficacia sul lato pratico (9).
I criteri indicati per la quantificazione dei suddetto danno sono infatti estremamente generici e comunque di applicazione estremamente complessa se non opinabile, se non altro per il fatto che danni dell'ambiente possono manifestarsi anche svariati anni dopo incidenti da cui hanno avuto origine.
Anche se ciò potrebbe non costituire un problema se la giustizia italiana conservasse i suoi attuali tempi biblici (10), anche in questo caso è da osservare come in effetti non ci sia alcuna sostanziale garanzia che i responsabili del danno all'ambiente (in quanto tale, ipotizzabile in somma di rilevante entità) siano poi effettivamente in grado di risarcirlo.
Anche in questo caso non è fuori luogo ipotizzare un lungo ed oneroso impegno degli organi giudiziari che sfoci poi in un risultato pratico non solo inesistente, ma per la collettività economicamente negativo; tanto che verrebbe da chiedersi se le pesanti spese per quantificare il danno e condannare un responsabile (insolvente) al pagamento non sarebbero meglio utilizzate a fini preventivi.
Anche in questo caso, quindi, sarebbe forse auspicabile una normativa più concreta e realistica, che però sia in grado anzi tutto di agire in via preventiva non semplicemente sotto il profilo sanzionatorio ma anche a mezzo di incentivi, e che sia comunque in grado di dare alla collettività una maggior certezza del ristoro dei danno ambientale (eventualmente anche se limitato) piuttosto che la teorica possibilità dei risarcimento totale che difficilmente verrà mai pagato.
- note:
(1) In sede internazionale la prevenzione
dell'inquinamento marino è regolata da diversi strumenti giuridici
che si possono raggruppare come segue:
- a) convenzioni che pongono il divieto di dispersione di idrocarburi
o sue miscele dalle navi o anche da piattaforme sia fisse che mobili utilizzate
per l'esplorazione e lo sfruttamento di idrocarburi nel fondo marino e
per la cui infrazione stabiliscono la punibilità da parte della
legislazione dello stato di immatricolazione operando con ciò un
rinvio agli ordinamenti interni (Convenzione di Londra del 1954 e Convenzione
per la prevenzione della polluzione da navi MARPOL 1973-1978);
- b) convenzioni che invece stabiliscono l'obbligo per lo stato costiero
di "porre in essere tutte le misure appropriate per la protezione delle
risorse viventi nel mare da agenti dannosi" sancendo la responsabilità
internazionale degli stati per i danni causati da terzi in ambiti soggetti
alla loro giurisdizione per l'inadempimento di tale obbligo oppure soltanto
consentono agli stati di adottare anche in alto mare le misure ritenute
necessarie a prevenire, attenuare o eliminare gravi e imminenti rischi
che possono derivare ai loro litorali a causa di inquinamento da idrocarburi
in seguito a sinistro marittimo (Convenzione di Bruxelles del 29 novembre
1969 e Convenzione sul diritto dei mare di Montego Bay dei 198/1),
- c) convenzioni che disciplinano lo scarico (o meglio l'immersione
in mare) di rifiuti ed altre sostanze nocive da navi, aerei, banchine od
altre strutture artificiali (c.d, dumping) e l'inquinamento da terra (Convenzione
di Londra dei 1972 e Convenzione di Parigi del 1974),
Come si può notare la legislazione internazionale
in materia di prevenzione presenta il comune substrato dell'acquisita consapevolezza
da parte della comunità internazionale che l'ambiente marino costituisce
il patrimonio comune dell'umanità e che il rischio dei c.d. inquinamenti
marini transfrontalieri richiede la cooperazione interstatuale.
In questo ambito si colloca per eccellenza la International
Convention on Oil Pollution Preparedness, Response and Co-operation, 1990
dell'IMO la quale predispone un complesso sistema di cooperazione tecnica
tra gli stati nella lotta all'inquinamento e altresì i molteplici
accordi regionali. Tra i tanti merita un cenno quello di particolare interesse
per l'Italia, ossia la Convenzione del 16 febbraio 1976 relativa alla salvaguardia
del Mare Mediterraneo che è ivi inteso nella sua interezza, con
la inclusione delle acque interne e degli stagni salati comunicanti con
il mare, e considerato, per la particolare situazione oceanografica, ecologica
e di traffico considerato "area speciale". L'inquinamento dell'area Mediterranea
(a prescindere dalla materia inquinante e dalle modalità dell'inquinamento)
è in tale accordo arginato con la previsione di una cooperazione
tra Stati a livello scientifico, tecnologico e di intervento nelle varie
situazioni critiche secondo programmi comuni. Ad esso sono stati affiancati
due protocolli: il primo relativo alla prevenzione dell'inquinamento
causato dalle operazioni di scarico effettuate da navi e aeromobili; il
secondo relativo alla cooperazione in materia di lotta contro l'inquinamento
da idrocarburi e altre sostanze nocive in caso di situazione critica.
Quest'ultimo protocollo in particolare ha fissato
i criteri affinché ogni stato o più stati possano creare
"zone protette" e contigue alla frontiera o ai confini della zona di giurisdizione
nazionale di un altro Stato nelle quali possono essere vietate o permesse
determinate attività (per es. divieto di scarico di rifiuti o altre
sostanze, regolamentazione della pesca e della raccolta di vegetali di
ogni attività di esplorazione e sfruttamento del fondo e sottofondo
marino di attività archeologica, commerciale, d'importazione o esportazione
di animali, di vegetali).
Non si possono poi trascurare i numerosi provvedimenti
CEE in materia come le direttive del 1976 e del 1978 per ridurre i rischi
di inquinamento provocato da incidenti, o ancora quelle relative alle sostanze
dannose scaricate in ambiente idrico, sulla qualità delle acque
di balneazione e di quelle destinate alla molluschicoltura fino alla recentissima
direttiva del 19 giugno 1995 relativa all'attuazione di norme internazionali
per la sicurezza delle navi, la prevenzione dell'inquinamento per le navi
che approdano nei porti comunitari e che navigano nelle acque sotto la
giurisdizione degli Stati membri la quale si pone (all'art. 1) l'obiettivo
"di diminuire drasticamente il trasporto marittimo nelle acque al di sotto
delle norme... migliorando l'osservanza della legislazione internazionale
e comunitaria pertinente in materia di sicurezza marittima, tutela dell'ambiente
marino a bordo delle navi battenti tutte le bandiere e definendo criteri
comuni per il controllo delle navi da parte degli Stati di approdo e armonizzando
le procedure di ispezione e di fermo" obiettivo concretamente perseguito
con la previsione di organismi procedure e impegni di ispezione nonché
di fermo della nave che presenti carenze.
Per quanto attiene invece alle misure tecniche di
sicurezza, si ricorda che dal 1 luglio 1993 con l'unificazione del mercato
europeo sono entrate in vigore le norme dell'IMO, siglate nel luglio 1991,
che prevedono per le navi cisterna un doppio scafo capace di proteggere
il fianco o il fondo delle navi nei casi di collisione ed incaglio. E'
bene però tenere in proposito presente che le regole prodotte dall'IMO
non hanno una vera e propria forza vincolante potendo solo costituire una
guida per le legislazioni interne.
Del resto, anche le norme sulla responsabilità
sono da considerarsi preventive per la loro funzione deterrente, segnatamente
nei casi dovuti a forme di negligenza (come suggerisce anche POLITI, Idanni
da inquinamento nella normativa nazionale: realtà prospettive" in
Dir. prat. ass. 1987, numero speciale, p. 79); ci stiamo riferendo sia
alle convenzioni sulla responsabilità civile in materia nucleare
tra le quali si menziona la più recente dei 17 dicembre 1971 sulla
responsabilità per il trasporto marittimo di sostanze nucleari,
sia alla Convenzione di Londra dei 1976 sulla responsabilità civile
per danni causati da inquinamento da idrocarburi risultante dallo sfruttamento
di risorse minerarie del fondo marino che crea un sistema di responsabilità
obiettiva a carico degli operatori delle installazioni petrolifere in aree
ricadenti nella giurisdizione degli stati contraenti, sia infine alla Convenzione
di Bruxelles sulla responsabilità civile per inquinamento da idrocarburi
del 29 novembre 1969 (CLC 1969) che a causa della alta percentuale dell'inquinamento
marino da sversamento di idrocarburi è divenuta di particolare rilievo
(basti pensare nel solo nostro mare ai gravi incidenti della Haven e della
Agip Abruzzo).
(2) Per approfondimenti sul regime introdotto dalla C.L.C. si veda Comenale Pinto "La responsabilità per inquinamento da idrocarburi nel sistema della CLC 1969" Padova 1993
(3) La CLC è stata poi affiancata
nel 1971 dalla IFC sulla istituzione di un fondo per il risarcimento dei
danni da inquinamento (anch'essa modificata con successivi protocolli)
essenzialmente con due scopi:
- a) garantire un congruo risarcimento dei danni da inquinamento alle
vittime nella ipotesi in cui non siano riuscite ad ottenere risarcimento
dal proprietario o non abbiano diritto al risarcimento secondo ulregime
della CLC, oppure i danni eccedano i limiti di responsabilità previsti
dalla CLC.
- b) alleviare parzialmente il proprietario della nave inquinatrice
del grave peso finanziario attribuitogli dalla convenzione.
Strumentalmente a queste finalità, la suddetta
convenzione ha quindi costituito un fondo internazionale al quale i ricevitori
di idrocarburi in quantità superiori ad un certo limite devono versare
dei contributi proporzionali facendo così gravare una parte delle
conseguenze economiche dei danni da inquinamento sui soggetti economicamente
interessati agli idrocarburi, quali i ricevitori di idrocarburi, che di
fatto poi sono le compagnie petrolifere e spesso anche le società
armatrici delle navi cisterna che effettuano il trasporto.
Ponendosi nella stessa ottica, gli stessi operatori
del trasporto di idrocarburi (armatori, noleggiatori, compagnie petrolifere)
sono addivenuti alla conclusione di una convenzione privatistica denominata
TOVALOP (Tanker owners voluntary agreement concerning liability for oil
pollution") entrata in vigore nel 1969 che statuisce, similmente alla CLC
una responsabilità oggettiva per danni da inquinamento petrolifero
a carico dei proprietario della nave cisterna. Mentre parallelamente e
in analogia al IOPC found con l'accordo CRISTAL i medesimi hanno istituito
un fondo anche questo privato finanziato dai proprietari del carico di
petrolio. Questi accordi volontari si applicano nei casi di inapplicabilità
delle predette convenzioni CLC 1969 e IFC 1971 e inevitabilmente interagiscono
con esse.
Si deve tuttavia segnalare l'esistenza di una vistosa
lacuna nella Liability Convention consistente nella mancata regolamentazione
del risarcimento del danno all'ambiente marino in quanto tale oltre alle
perdite e alle spese causate dall'inquinamento. Questa mancanza è
stata aggravata dall'aggiunta del Protocollo del 1984 che ha espressamente
escluso il risarcimento del puro danno ecologico.
(4) Convenzione di Bruxelles del 25 maggio 1962 sulla responsabilità dell'armatore di navi nucleari, Convenzione NUCLEAR 1971 sulla responsabilità per il trasporto marittimo di sostanze nucleari .
(5) La legge 31 dicembre 1982 n. 979 "Disposizioni per la difesa del mare", prevede una responsabilità solidale nei confronti dello stato, a carico dei proprietario, dell'armatore e del comandante della nave che ha versato idrocarburi in mare.
(6) La pronuncia del Tribunale di Messina, relativo alla petroliera Patmos, ha affermato che la risarcibilità del danno ambientale (inteso in senso stretto e perciò distinto dalle spese disinquinanti) non è regolamentata dalla C.L.C. e deve quindi avere soluzione diversa a seconda dell'ordinamento dello stato che, avendo subito l'inquinamento, è chiamato a pronunciarsi giurisdizionalmente (Trib. Messina 30 luglio 1986, in Dir. Trasp. 1988/I, 181, con nota di Comenale Pinto In margine ad alcuni problemi nell'applicazione della C.L.C. 1969 e della I.F.C. 1971)- La Corte d'Appello di Messina ha ritenuto esistente il diritto dello Stato italiano al risarcimento del danno alle risorse marine secondo l'art. 21 della legge 1982/979 per la difesa del mare, affermando invece che esso rientra fra i danni risarcibili ai sensi della C.L.C. (App. Messina 22 maggio 1989, in Dir. Trasp. 1990/11, 247, con nota di Pellegrino, La risarcibilità allo Stato del danno da inquinamento del mare territoriale: tra esperienza italiana e normativa internazionale, App. Messina 24 dicembre 1993, in Dir. trasp. 1994, 585, con nota di Pellegrino, Quali criteri per quantificare il danno all'ambiente marino?). Dunque, non è affatto pacifico che i vari aspetti problematiche sul danno ecologico risarcibile rientrino nella disciplina della CLC, essendo per gran parte regolati invece dalla normativa dei singoli stati contaminati chiamati a giudicare sulla domanda di risarcimento, con detrimento della uniformità auspicata dalla CLC.
(7) Al proprietario è riconosciuto
dalla C.L.C. il diritto di limitare la sua responsabilità, per ciascun
sinistro, ad un importo calcolato sulla base delle tonnellate di stazza
della nave cisterna, con la previsione poi di un limite massimo.
La convenzione esclude poi la esperibilità
di altra domanda di risarcimento, nei confronti del proprietario, che non
sia fondata sulla convenzione ma sugli ordinari strumenti di accertamento
della responsabilità extracontrattuale forniti dal codice della
navigazione (art. 274 quando il proprietario riveste la funzione di armatore
il quale ultimo è ivi responsabile per i fatti dell'equipaggio)
e dal codice civile (art. 2043 e 2050) o ancora dalle leggi speciali 19821979
e 1986/349 per ciò che riguarda l'ordinamento italiano e vieta altresì
qualsiasi azione di risarcimento verso i preposti o mandatari, con o senza
rappresentanza del proprietario. I protocolli dei 1984 estendono questo
divieto di esperimento della azione di responsabilità nei confronti
dei piloti e degli altri membri dell'equipaggio, dei noleggiatori, del
locatario a scafo nudo, dei manager e degli operatori della nave, dei soccorritori,
di tutti coloro che predispongono misure di prevenzione e dei preposti,
dipendenti o mandatari dei soggetti menzionati E' comunque consentita al
proprietario l'azione di rivalsa nei confronti dei terzi eventualmente
responsabili.
(8) La carente coordinazione fra norme interne e normativa internazionale è comunque fenomeno diffuso nell'ambito dei Mediterraneo, a causa della concorrenza di una quantità eccessiva di normative interne nazionali ugualmente dirette alla tutela dell'ambiente marino dagli inquinamenti che rendono complicata la scelta della normativa applicabile (come rileva Romanelli "Norme convenzionali e ordinamento interno" in "Il regime giuridico internazionale del mare mediterraneo" a cura di Leanza, Milano 1987, 457). Tale situazione determina dunque una esigenza di sfoltimento delle normative nazionale o per lo meno di migliore coordinamento tra le varie legislazioni nazionali e tra queste e le convenzioni internazionali.
(9) Il concetto di danno ambientale
è ancora in corso di definizione e per le intrinseche difficoltà
di valutazione, anche per via dei lunghi tempi di manifestazione del fatto
lesivo, di solito viene quantificato in via equitativa da parte del giudice
ordinario (sul punto leggasi Pellegrino "Quali criteri per quantificare
il danno all'ambiente, marino?" in Dir. trasp. 1994/II, 596).
Purtuttavia la legge 1986/349 tenta di imporre al
giudice alcuni criteri di valutazione costituiti dal costo del ripristino,
dalla gravità della colpa individuale e dal profitto conseguito
dal trasgressore in conseguenza dei suo comportamento lesivo.
Per quanto attiene invece alla legittimazione attiva
alla domanda di risarcimento per il nocumento all'ambiente marino, essa
spetta allo Stato quale ente esponenziale degli interessi della collettività
(oggi, tale titolarità dovrebbe ritenersi in capo al ministero dell'ambiente)
sia secondo la l. 979/1982 sia a norma della l. 349/1986 la quale ultima
consentirebbe l'esperíbílítà dell'azione di
risarcimento anche agli enti territoriali sui quali incidono i beni pubblici
o privati oggetto dei fatto lesivo. E cittadino è infatti solo abilitato
a sollecitare l'esercizio dell'azione denunciando i fatti di cui sia a
conoscenza mentre secondo la legge 349/1986 i privati sarebbero indennizzabili
solo dopo aver assolto la prova che la diminuzione della risorsa ambientale
abbia leso un loro diritto soggettivo incidente su di un loro bene privato.
Le associazioni ambientalistiche, per giunta restrittivamente individuate,
possono denunciare i fatti lesivi, operare un intervento ad adiuvandum
nel processo e sono titolari di una autonoma legitimatio ad causam
unicamente davanti al giudice amministrativo per l'annullamento degli atti
illegittimi.
Le due suddette leggi speciali dirette alla tutela
del mare e dell'ambiente coprono tutte le ipotesi non ricomprese nell'ambito
della CLC, ovvero, per fare qualche esempio: lo spandimento in mare di
sostanze diverse da idrocarburi, la attribuzione della responsabilità
per danni a soggetti diversi dal proprietario della nave (come l'armatore
non proprietario e i suoi dipendenti e preposti) e il danno ambientale
in senso stretto sul quale ci siamo già soffermati .
(10) Per la Patmos, dal momento del sinistro a quello del deposito della sentenza definitiva d'appello sono trascorsi otto anni e nove mesi.
Si ringrazia la dott.ssa Daniela Susanna Colombo per la collaborazione nel vaglio del materiale normativo.