Il cinquantenario del codice della navigazione
 1993    278

Enzo Fogliani
 
 PROSPETTIVE DI RIFORMA DELL'ART. 423 COD. NAV.

    Vorrei prendere lo spunto dalla recente ordinanza n. 8/1991 della Corte costituzionale in tema di limite di responsabilità del vettore marittimo nazionale di merci (art. 423 cod. nav.) per fare alcune considerazioni di carattere generale.

    Come noto, con tale ordinanza la Corte costituzionale ha di recente respinto per difetto di rilevanza una questione di costituzionalità dell'attuale limite (200.000 lire per unità di carico) sollevata dal Tribunale di Genova.

    Senza entrare nel merito della decisione della Corte costituzionale, autorevolmente redatta dall'illustre presidente prof. Pescatore, e dandola quindi come dato di fatto acquisito, mi sembra che il quadro che si può evincere dalla recente giurisprudenza è sostanzialmente l'esaurimento di argomentazioni da parte dei giudici di merito per dare sfogo in sede costituzionale al disagio di dover applicare una limitazione di responsabilità da molti ritenuta inadeguata.

    A grandi linee, le vie battute sono state quella del contrasto con l'art. 10 della costituzione (mancato adeguatamente alle convenzioni di diritto internazionale vigenti) e quella del contrasto con l'art. 3 (principio di eguaglianza).

    Sotto il primo profilo, è stato agevole per la Corte costituzionale rilevare che la consolidata interpretazione dell'art. 10 cost. pone sostanzialmente come parametro di raffronto il diritto consuetudinario internazionale e non quello scaturente dai trattati. Anche se si può avere qualche perplessità sulla validità per il futuro di tale orientamento, che nell'attuale tendenza a tradurre in diritto scritto il diritto consuetudinario iniziata con la Convenzione di Vienna del 1968 renderebbe inutile l'esistenza dell'art. 10 della costituzione, nel tempo breve è indubbio che sotto tale aspetto il limite di responsabilità non può essere (e non è stato) censurato.

    In relazione all'art. 3 cost., la giurisprudenza di merito si è sbizzarrita a trovare i più disparati profili di ineguaglianza, alcuni più convincenti, altri palesemente infondati. Le relative eccezioni non hanno però avuto fortuna. Già di per sé il giudizio sulla base del principio di eguaglianza sfugge a principi oggettivi ed è rimesso ad un prudente giudizio discrezionale su cui difficilmente possono essere mossi rilievi di carattere tecnico-giuridico. Nel caso del limite, poi, la Corte costituzionale ha sempre tagliato ogni discussione alla radice, affermando che la possibilità delle parti di scegliere un diverso regime mediante la dichiarazione di valore esclude a priori la violazione di detto principio.

    Si potrebbe obiettare che per quasi ogni legge di carattere dispositivo il cittadino può scegliere, in base ai suoi comportamenti, se una data norma possa essere a lui o meno applicabile; e che quindi il giudice costituzionale debba comunque decidere se la legge, per i soggetti cui si applica o comunque scelgano di applicarla, sia rispondente o meno a criteri di eguaglianza. Ma tale orientamento, seppur fosse discutibile, è necessario darlo anch'esso per acquisito.

    Quindi, nel momento attuale, ogni possibilità di rimozione della norma sul limite attraverso l'intervento della Corte costituzionale   è realisticamente insussistente.

    D'altra parte, la prudenza della Corte nell'intervenire sul limite è sotto il profilo sostanziale giustificata dal fatto che, trattandosi di intervento di carattere abrogativo, una pronuncia di incostituzionalità non risolverebbe affatto il problema sotto il profilo dell'eguaglianza, ma lo riproporrebbe in posizione speculare esattamente opposta, in relazione ai limiti vigenti in sede internazionale.

    Peraltro, gli studi in corso per l'adozione di un nuovo codice della navigazione offrono l'opportunità di esaminare de jure condendo i maggiori aspetti di insoddisfazione del limite e proporne modifiche.

A mio avviso, i tre principali motivi di perplessità nella normativa vigente sono:
- a) la ridotta entità del limite;
- b) l'enunciazione in via nominalistica, e quindi la sua sottoposizione ai noti fenomeni inflattivi;
- c) la mancata oggettività del limite e sua manovrabilità da parte del vettore.

    I primi due punti sono aspetti comuni ai limiti di altri settori del trasporto, in cui pure si sono registrati interventi aggiornativi.

    Tali interventi, consistiti nell'innalzamento del tetto e nell'adozione per quanto possibile di un'unità monetaria soggetta in misura ridotta ai fenomeni inflattivi, non è a mio avviso atta ad impedire in futuro la riproposizione dei problemi di insufficienza.

    Infatti, le unità monetarie adottate in altri settori del trasporto (per esempio i diritti speciali di prelievo) sono pur sempre soggette, anche se in misura ridotta, ai fenomeni inflattivi ed il problema si riproporrà fatalmente in un futuro, anche se più o meno lontano.

    La soluzione sarebbe peraltro semplice e riallaccerebbe la norma alla sua ratio originaria, ricucendo una corrispondenza fra rischi e costo del trasporto e risarcimento dovuto, che si è ormai persa. Si tratterebbe in sostanza di ancorare il limite ad una percentuale del corrispettivo pagato per il trasporto. Dato che quest'ultimo viene adeguato liberamente dalle imprese vettrici all'inflazione, il limite - una volta stabilito - manterrebbe valido non solo il suo valore in relazione all'inflazione, ma anche la sua corrispondenza percentuale per il vettore nell'ambito dei trasporto.

    Tale soluzione è già stata adottata in altri settori, e funziona assai bene. Mi riferisco per esempio al regime di responsabilità dell'albergatore, che adotta un simile sistema (risarcimento limitato a 100 volte il prezzo giornaliero pagato per l'alloggio: art. 1783 c.c.) che sin'ora non ha dato adito a critiche.

    L'adozione di tale criterio risolverebbe automaticamente anche il terzo problema, che nel settore marittimo merci nazionale è di particolare gravità. La determinazione del limite di responsabilità "per unità di carico" non è infatti in parecchi casi un criterio per così dire fisso e oggettivo. In mancanza di più precise determinazioni, esso è considerato comunemente come l'unità sulla base della quale viene calcolato il nolo. Ma ciò significa lasciarne sostanzialmente la determinazione all'arbitrio del vettore. Questi, infatti, è libero di stabilire a suo piacimento "l'unità di carico" su cui calcolare il nolo. Per la stessa merce potrebbe essere a chilo, a quintale, o a tonnellata; e lo stesso quantitativo di merce calcolato in tonnellate ha un limite mille volte inferiore a quello calcolato a chilo (criterio questo adottato in sede internazionale).

    E' quindi palese che la possibilità del vettore di giostrare a suo piacimento fra unità di carico di grandezza virtualmente illimitata pone di fatto il limite di responsabilità ad un valore sostanzialmente infimo.

    La soluzione sopra prospettata, come detto, risolverebbe automaticamente tale problema, cui la Corte costituzionale si è già dimostrata sensibile dichiarando l'illegittimità della 1. 450/1985 in tema di trasporto stradale, laddove non prevede un meccanismo di aggiornamento del limite (sentenza n. 420/1991).

    In ogni caso, indipendentemente dalla soluzione adottata per consentire l'adeguamento dei limite di responsabilità, sarebbe opportuno che il legislatore dettasse criteri fissi ed oggettivi, e non lasciati, come ora, al sostanziale arbitrio della parte debitrice del risarcimento, ossia il vettore.

 

 Enzo Fogliani