Diritto dei trasporti
2018
II
pag. 115

ENZO FOGLIANI 
La durata dei giudizi e l’ondivaga certezza del diritto 

 
Il tribunale di Civitavecchia ha recentemente reso all’esito di un’udienza di discussione ex art. 281-sexies c.p.c. una sentenza (n. 790/2017, pubblicata infra) in tema di azione di surrogazione dell’assicuratore. Lasciato a più valorosi studiosi l’onere di commentarla sotto l’aspetto giuridico, sia concesso in questa sede far conoscere ai lettori varie fasi del procedimento che ha portato a tale sentenza.

La citazione viene notificata il 2 novembre 2009 da un assicuratore di un carico che, risarcito il danno, agisce nei confronti dell’handler aeroportuale che ne ritiene il responsabile. Costituitosi il convenuto, fra uno sciopero dei magistrati ed uno degli avvocati, si giunge dopo quasi due anni (15 luglio 2011) all’udienza di ammissione dei mezzi istruttori. Viene ammesso un teste di parte attrice, sentito dopo quasi un anno (13 giugno 2012), il quale in sostanza conferma quanto parte attrice vuole provare. La causa viene quindi rinviata per precisazione delle conclusioni di lì a due anni (12 febbraio 2015) e poi trattenuta in decisione. Tuttavia, depositate conclusionali e memorie, anziché la sentenza viene emessa un’ordinanza la quale rimette la causa sul ruolo per una nuova precisazione della conclusioni al 4 giugno 2015. A tale udienza viene disposto un nuovo rinvio al 17 marzo 2017; data alla quale la causa non è trattenuta in decisione, ma nuovamente rinviata per discussione ex art. 281-sexies c.p.c. al 22 settembre 2017. All’esito della discussione orale la sentenza non viene né letta in udienza, né depositata immediatamente in cancelleria, come previsto dalla norma in questione, ma solo 5 giorni dopo (27 settembre 2017). 

 Il giudizio è quindi durato quasi 8 anni (per la precisione, dalla notifica alla sentenza, 7 anni, 10 mesi e 6 giorni), nel corso dei quali si sono avvicendati — perlomeno a tenere udienza — almeno 5 fra giudici togati e giudici onorari.

Tanto tempo per cosa? Per rendere una pronuncia nella quale il giudice ha respinto la domanda in quanto «nessuna richiesta di rimborso risulta essere stata effettuata al danneggiante prima dell’introduzione dell’odierno giudizio, con ciò dovendosi escludere la legittimazione della compagnia as-sicuratrice a surrogarsi nei diritti spettanti all’assicurato». E per dirlo non ha citato una qualche sentenza appena uscita della Cassazione a sezioni unite, bensì due sentenze della Cassazione del 1994 e del 2002, che al tempo dell’inizio del giudizio erano ampiamente note.

Una tale sentenza poteva dunque essere resa fin dall’inizio della causa, o tuttalpiù nel 2011, quando era scattato il termine preclusivo per la produzione di documenti non prodotti con la citazione, ammesso che un tale documento esistesse.

 Una prima considerazione: se la sentenza è corretta, allora sono stati spesi del tutto inutilmente almeno sei anni. Sei anni che hanno tenuto impegnati avvocati, giudici, cancellieri (e, per un’udienza, il teste) per nulla.
 
Ma non è questa la cosa più grave. Se la sentenza è corretta, potrebbe pensarsi che i giudici che hanno ammesso la prova testimoniale (del tutto inutile, vista la sentenza) non si siano neppure lette le carte e abbiano accolto le richieste istruttorie senza neppure verificare se la eccepita carenza di legittimazione fosse o meno fondata. Se invece — come è sperabile — se le erano lette ed hanno ammesso la prova testimoniale sul merito nella convinzione che vi fosse legittimazione attiva, allora avrebbero avuto un orientamento del tutto opposto a quello dell’estensore della sentenza. È vero che c’è il detto tot capita, tot sententiae; tuttavia, sarebbe meglio lasciarlo ai commediografi (come Terenzio che, prima di Cicerone, lo ha riportato) piuttosto che ai giudici, che dovrebbero essere ispirati dal principio della certezza del diritto e della uniformità delle decisioni.

 C’è anche una terza ipotesi, che non vogliamo però neppure pensare: che il giudice per così dire finale non abbia voluto addentrarsi nel voluminoso fascicolo ed abbia trovato con la carenza di legittimazione come sopra motivata un modo veloce per togliersi la causa dal ruolo.

 Per la cronaca, il sottoscritto è il beneficiario della sentenza, avendo vinto la causa, seppur in modo così deprimente; ma non può non pensare allo sconforto del valente avversario, che forse riteneva di prendere parte ad un giudizio in cui valesse l’abilità argomentativa ed il valore giuridico ed invece si è trovato a giocare ad una roulette russa, come sono ormai, purtroppo, molti procedimenti giudiziari cui capita di partecipare.
 
 Probabilmente non gli andrà meglio con l’appello, visto che, secondo il nuovo art. 348-bis c.p.c., «l’impugnazione è dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta». Ed anche in questo caso la pur breve esperienza personale (sia come appellante che come appellato) ci insegna che la ragionevole probabilità di accoglimento è spesso inversamente proporzionale al carico del ruolo della sezione cui è assegnata la causa.

E questa sarebbe la patria del diritto…
 
Enzo Fogliani.



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