TRIBUNALE DI MODENA

27 SETTEMBRE 2004

 

GIUDICI:                                  PRES. G. STANZANI

                                                  REL: M. CIFARELLI

PARTI:                                     POSTE ITALIANE S.P.A.

                                                  (Avv.ti Molè, Pini, Sandulli e Tavormina)
                                                  MALAVASI

                                                  (Avv.ti Borelli e Gazzetti)

                                                  NAMING AUTHORITY ITALIANA

                                                  (Avv.ti Fogliani, Menchetti, Sammarco e Riguzzi)

                                                  CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE

                                                  (Avvocatura dello Stato)

 

Avendo Daniele Malavasi registrato per Internet quali propri nomi a dominio bancoposta.it, vaglia.it e raccomandata.it, Poste Italiane s.p.a. agiva dinanzi a questo Tribunale onde ottenere tutela  in via cautelare ante causam. L’istanza veniva accolta in sede di reclamo, ove si vietava a Daniele Malavasi l’impiego dei termini in questione quali  domain names dei propri siti Internet, disponendosene l’immediata chiusura.

Con atto di citazione notificato in data 9-10 ottobre 2000, Poste Italiane s.p.a. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Modena Daniele Malavasi – in proprio e quale titolare della Discovogue – la Naming Authority Italiana, la Registration Authory Italiana ed il Consiglio Nazionale delle Ricerche (tutte parti già evocate in sede cautelare, ove era stata ulteriormente citata la Got.it, quale intermediaria del Daniele Malavasi nella registrazione dei siti in questione), rassegnando conclusioni sostanzialmente conformi a quelle riportate in epigrafe, tranne che per l’estensione a tutti i convenuti della condanna al risarcimento dei danni di cui al capo a) di dette conclusioni, in sede di p.c. ribadita soltanto nei confronti del Daniele Malavasi.

In sintesi l’attrice, premesso di aver in corso la registrazione del marchio "bancoposta" e di avere in preuso nazionale i marchi "vaglia" e "raccomandata", sosteneva che l’altrui registrazione in Internet di tali locuzioni come propri nomi a dominio costituisse sia contraffazione di marchio, sia concorrenza sleale sotto tutti i profili normativi, sia illecito ordinario.

Daniele Malavasi, costituitosi in giudizio, rassegnava conclusioni sostanzialmente corrispondenti a quelle riportate in epigrafe - tranne quelle iniziali relative ad una presunta nullità della citazione, aggiunte in sede di precisazione delle conclusioni - deducendo, in sintesi, l’inidoneità di tali parole ad essere registrate quali marchi e l’assenza di un rapporto di concorrenzialità.

Le altre parti si costituivano in giudizio chiedendo il rigetto delle domande spiegate nei rispettivi confronti.

Comunicati gli atti al P.M. – che non riteneva di intervenire in giudizio - in relazione alla riconvenzionale di nullità del marchio "bancoposta" proposta da Daniele Malavasi e risolte alcune questioni inerenti la cautela in atto, di cui è inutile dar conto in questa sede, il G.I. riteneva di provocare l’immediata decisione della causa senza alcun approfondimento istruttorio, sicchè essa, sulle conclusioni delle parti come in epigrafe trascritte, scaduti in data 9 aprile 2004 i termini concessi ex art.190 cpc, veniva rimessa al collegio per la decisione.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1) Non è superfluo precisare che le parti convenute in causa sono, oltre alla Naming Authority Italiana:

a)                         Daniele Malavasi. Nell’ordinamento giuridico italiano, infatti, non esiste una soggettività giuridica dell’impresa individuale scissa da quella del suo titolare, che risulta pertanto unico soggetto giuridico sia in quanto persona, che in quanto imprenditore. Non ha senso, quindi, differenziare la qualità soggettiva di costui in relazione all’uno od all’altro aspetto del suo essere centro d’imputazione d’interessi giuridici, né tantomeno sollevare rilievi in rito che si fondano sull’esistenza di due distinte identità soggettive: Daniele Malavasi è in quanto tale parte unica del processo, sia (per citare i termini utilizzati in causa) in proprio, sia in quanto titolare dell’impresa individuale denominata Discovogue.

b)                         il Consiglio Nazionale delle Ricerche, essendo la Registration Authority Italiana una semplice articolazione interna delle attività ad esso affidate, priva di autonoma personalità giuridica.

2) L’eccezione di incompetenza territoriale del giudice adito, per essere competente il Tribunale di Bologna in virtù della regola del c.detto "foro erariale" di cui agli artt. 25 cpc e 6 R.D. n°1611/33, sollevata dal Daniele Malavasi in ragione della contemporanea evocazione in giudizio, da parte dell’attrice, del Consiglio Nazionale delle Ricerche, non merita accoglimento.

Se è vero, infatti, che il C.N.R. gode dell’assistenza legale obbligatoria dell’Avvocatura dello Stato (dapprima in forza del R.D. n° 779/1940, poi ex art.21 del D. L. L. n° 82/45, ed ora ex art. 15 co. 7 del D. Lgs n°127 del 4 giugno 2003, che ha in gran parte sostituito il D. lgs. n° 19 del 30 gennaio 1999, a sua volta in gran parte sostitutivo del D. L. L. n° 82/45), è altrettanto indiscusso che esso sia un ente pubblico non economico, dotato di formale personalità giuridica distinta da quella dello stato, essendo tale distinta soggettività, già affermata nell’art. 1 del D. L. L. n° 82/45 e comunque ritenuta nella vigenza di tale normativa dalla Cassazione (si veda, per tutte, Cass., sez. U., sent. n° 8533 del 21 agosto 1990), testualmente affermata sia nell’art. 1 del D. Lgs n° 19/99, vigente all’epoca d’introduzione della presente causa (ove il C.N.R. viene definito "ente nazionale di ricerca" con "personalità giuridica di diritto pubblico", dotata di un "ordinamento autonomo") sia nell’art. 2 del recente D. Lgs n° 127/03 (che lo definisce "ente pubblico nazionale", con "personalità giuridica di diritto pubblico", che gode di "autonomia scientifica, finanziaria, organizzativa, patrimoniale e contabile" e si dota di un "ordinamento autonomo").

 Ciò posto, è pacifico in giurisprudenza che "le particolari disposizioni in materia di foro erariale... si applicano alle sole controversie nelle quali sia parte un’amministrazione dello stato" e "non sono pertanto estensibili alle controversie nelle quali siano parte altri enti che, pur rappresentati e difesi in giudizio dall’Avvocatura, abbiano soggettività giuridica formalmente distinta dallo Stato" (così Cass., sez. I, sent. n° 7956 del 25 agosto 1997. Nei medesimi sensi Cass., sez. I, sent. n° 6450 del 8 luglio 1994, Cass., sez. U., sent. n° 3573 del 25 marzo 1993 nonché, ancor prima, Cass. nn° 4150/78, 4852/81, 6858/83 e 4080/85).

Tale essendo il caso del C.N.R., va pertanto esclusa l’applicazione, nei suoi confronti, delle regole del foro erariale, con conseguente rigetto dell’eccezione.

3) Tutte le questioni riproposte dal Daniele Malavasi che riguardano la cautela concessa ante causam non vanno trattate, essendo destinate ad essere comunque assorbite e superate dalla decisione del merito da rendersi in questa sede.

4) Got.it non è parte necessaria del presente giudizio di merito. La sua mancata evocazione in causa, pertanto, già in astratto all’effetto d’inefficacia del cautelare ante causam pronunciato nei suoi confronti (in concreto, peraltro, tale parte è stata evocata in detto procedimento, ma non ha subito alcuna pronuncia), non accoppia anche un’efficacia invalidante della citazione, come dedotto dal Daniele Malavasi.

5) Non può seriamente mettersi in dubbio la legittimazione attiva delle Poste Italiane in ordine alle domande proposte nei confronti del Daniele Malavasi per aver nelle more del giudizio trasferito i servizi internet ad altra società, stante il chiaro disposto dell’art. 111 co. 1° c.p.c.

6) Passando all’esame del merito, è il caso di premettere che Internet è una rete telematica mondiale, articolata in vari nodi nazionali e locali, cui i singoli utenti accedono attraverso la rete telefonica collegata al computer. Per rendersi accessibili agli altrui collegamenti, è necessario individualizzare il "sito" del proprio computer attraverso un codice di identificazione (c.detto indirizzo IP, Internet Protocol) costituito da una data combinazione di gruppi di numeri divisi da punti. Per facilitare i collegamenti, ciascuno di tali indirizzi viene affiancato da uno (e uno solo) c.detto indirizzo DNS (Domain Name System), rappresentato da una combinazione di lettere in grado di formare parole di senso compiuto, che costituisce l’elemento necessario e sufficiente al singolo utente per realizzare la connessione con quel particolare sito (provvedendo l’apposito software a convertire automaticamente l’indirizzo DNS nell’indirizzo IP, unico riconoscibile dalle macchine).

Gli indirizzi DNS si compongono di due parti. Il c.detto top level domain (TLD), che è composto da due o tre lettere poste all’estrema destra, dopo un punto, che identificano l’area tematica o geografica del sito. I TLD esistono in numero limitato per le aree tematiche (il più famoso è .com , che designa le attività commerciali), mentre molte aree geografiche hanno il proprio TLD identificativo (per l’Italia è .it). Il TLD è la parte di indirizzo che non è scelta dall’utente, ma gli viene assegnata al momento della registrazione.

Il c.detto second level domain si trova, invece, sulla sinistra, ed è una espressione alfabetica liberamente scelta dall’utente (entro il limite tecnico rappresentato dal numero dei caratteri, che non deve essere superiore a 21), costituendo pertanto il vero momento identificativo del sito.

Tale meccanismo è diventato uno standard generale, garantito da un sistema di registrazione dei nomi che, nato in America, si è poi articolato nel mondo attraverso la creazione di varie autorità di registrazione locali, che adottano procedure simili per l’assegnazione, definite da autonomi organismi collaterali. In Italia, il regolamento di registrazione è stabilito dalla Naming Authority italiana (Na), mentre la Registration Autorithy italiana (Ra) è l’organismo responsabile dell’assegnazione dei nomi – tutti aventi il TLD .it - e della tenuta dei relativi registri. Il principio cardine dell’assegnazione dei DNS è la regola del "first came, first served", in forza del quale l’autorità assegna il nome al primo utente che ne fa richiesta, senza svolgere alcun preventivo controllo di interferenza con altrui diritti di privativa discendenti dalla legge.

Ciò posto, è chiaro che compito del giudice non è quello di arretrare di fronte ad un fenomeno in continua espansione, retto da propri principi di funzionamento e con caratteristiche uniche e, fino a poco tempo fa, inimmaginabili (una per tutte: la delocalizzazione, per cui ogni "sito" risulta accessibile da ogni parte del mondo); è necessario, al contrario, occuparsi della sua collocazione giuridica, utilizzando gli ordinari strumenti esegetici al fine di verificare ogni possibile interferenza con la legislazione interna di riferimento che, nella specie, è in primo luogo quella relativa alla privativa ed alla concorrenza.

6.1) In relazione alla legislazione di tutela dei marchi e dei segni distintivi, occorre quindi porsi l’astratto problema della catalogazione del DNS; il che significa chiedersi innanzitutto se esso costituisca in qualche modo un segno distintivo (assimilabile ad un marchio di fatto, ad una ditta di fatto, ad una insegna, o individuabile come segno (tipico), in quanto tale soggetto all’altrui aggressione per violazione della privativa, ovvero costituisca qualcosa d’altro, estraneo all’applicazione della disciplina qui in considerazione - ci si riferisce, in particolare, a quella teoria che individua nel DNS semplicemente l’indirizzo del computer collegato alla rete (vedi Trib. Firenze, ord. 29 giugno 2000).

In realtà, ove si consideri che l’elemento qualificante del DNS – ovvero il second level domain- viene ad essere arbitrariamente stabilito dall’utente (ed ha quindi ben poco in comune con l’indirizzo, che certo non è oggetto di scelta), non può seriamente dubitarsi dell’appartenenza del domain name alla categoria dei segni distintivi, di cui possiede tutte le caratteristiche peculiari, vale a dire la natura di rappresentazione grafica (nella specie denominativa) prescelta dal titolare allo scopo di far riconoscere la propria attività rispetto agli altri.

Che, poi, esso debba ricondursi ad una piuttosto che ad altra categoria di segni, al fine che qui occupa, poco importa (questo giudice, sia detto per inciso, propende per l’assimilazione all’insegna, perché svolge l’identica funzione di contraddistinguere il luogo – virtuale - in cui l’imprenditore offre i propri prodotti o servizi al pubblico, consentendone al contempo il reperimento e l’individuazione rispetto ai concorrenti), poiché, così classificato, comunque il domain name non si sottrae al rispetto delle regole dettate in materia, in virtù del principio di unicità dei segni distintivi.

6.2) In rapporto alla disciplina della concorrenza, vengono necessariamente in rilievo le peculiarità proprie di internet, che determinano le seguenti opzioni intepretative:

a) in primo luogo, il rapporto di concorrenza va verificato non solo rispetto al segmento di mercato relativo ai prodotti e servizi offerti in via diretta dalle imprese attraverso la rete, ma anche rispetto allo specifico mercato della raccolta pubblicitaria proprio della rete. In effetti, è notorio che ciascun sito internet, oltre ad essere utilizzato per la promozione e la vendita dei prodotti e servizi del titolare, ha un’ontologica attitudine a veicolare informazioni pubblicitarie di terzi nei confronti dei visitatori del sito. Esiste, pertanto, su internet, uno specifico mercato, in cui la clientela è costituita da imprese terze rispetto al titolare del sito, disposte a pagare a costui un corrispettivo per la diffusione della propria pubblicità nei confronti dei visitatori del sito, in quanto produttrici di prodotti o servizi potenzialmente collocabili presso costoro; corrispettivo la cui entità è notoriamente funzione del numero dei c.detti "click" (cioè, delle operazioni svolte da ogni utente all’interno del sito -a partire da quella che consente l’ingresso in esso, fino a quella che determina l’uscita dal sito - attraverso l’uso del "mouse", che a tal fine vengono esattamente conteggiate, essendo ciò consentito dall’esistenza di software in grado di rilevarle con precisione) e quindi del numero dei visitatori. In tal senso, può dirsi che ciascun sito internet funziona anche come una televisione monotematica o un prodotto editoriale di settore che vende spazi pubblicitari alle imprese che annoverano fra i propri potenziali clienti gli utenti della prima o i lettori della seconda, praticando prezzi proporzionati alla sua diffusione;

b) ciò determina la necessità di una verifica supplementare e peculiare del rapporto di concorrenza, che può esistere rispetto al mercato pubblicitario specifico – oltre che in aggiunta - anche in assenza di diretta concorrenza sui prodotti e servizi offerti. Per fare un esempio, fra un commerciante di automobili ed un editore di una rivista di storia dell’automobile non è ipotizzabile alcuna concorrenza nel mercato "reale"; sul mercato "virtuale", invece, entrambi si rivolgerebbero ad una fascia d’utenza almeno parzialmente coincidente e quindi ad un identico mercato pubblicitario, e conseguentemente andrebbero considerati rispetto a questo concorrenti;

c) con riferimento alle specifiche ipotesi di concorrenza sleale, partendo da quella di cui alla prima ipotesi dell’art.2598 n° 1 c.c., la costante affermazione giurisprudenziale, secondo cui "la configurabilità della concorrenza sleale ex art. 2598 n° 1 c.c. postula un ‘quid pluris’ rispetto alla mera contraffazione del marchio, consistente nel requisito della confondibilità, in concreto, dei prodotti, che non è invece necessario al fine dell'esercizio dell'azione di contraffazione, per il quale è sufficiente la mera confondibilità tra i segni" (così, ex multis, Cass., sez. I, sent. n°  9617 del 25 settembre 1998), va senz’altro ribadita. Essa, però, rispetto alla concorrenza sul mercato della raccolta pubblicitaria di internet, si atteggia in maniera peculiare, poiché occorre considerare che, come detto, tale mercato è funzione della tipologia e del numero degli utenti del sito, che per lo più si determinano a visitarlo in base al contenuto ipotizzabile in rapporto al significato corrente del domain name e vengono conteggiati anche in base al semplice accesso alla pagina iniziale del sito, pur se seguito da immediato recesso. Ad esempio, se un utente di internet è interessato ad acquisire notizie su armi da sparo a lungo raggio e non conosce direttamente il nome del sito che gli possa offrire tali notizie, proverà ad effettuare una ricerca casuale, o affidandosi ad uno dei tanti motori di ricerca esistenti in rete, che svolgono la funzione di rinvenire i siti di cui si conoscono parti del DNS, digitando ad esempio la parola "fucili", o – se appena un po’ più esperto - digitando direttamente tale parola quale DNS, seguita da un punto e da uno dei vari TLD utilizzabili - .it, .com, etc. In entrambi i casi troverà un sito denominato "fucili.it" ove, per il solo fatto del collegamento, diventerà un contatto spendibile sul mercato pubblicitario dal titolare del sito - anche se, nella specie, costui fosse un imprenditore di nome Fucili, che commercializzi tutt’altro genere di prodotti. Analogamente – e l’esempio è più pertinente - una persona interessata all’acquisto di un’automobile potrà, nella sua ricerca casuale, imbattersi in siti in cui effettivamente si commercializzano veicoli, ma anche in altri che si occupano di storia dell’automobile, ovvero che offrono la funzione di ricerca di siti in materia di automobili, etc., tutti in concorrenza fra loro rispetto al mercato pubblicitario informatico indirizzato all’utenza interessata alle automobili, cui praticano prezzi in ragione dei contatti ricevuti.

E’ evidente, pertanto, che rispetto al mercato in questione, la concreta confondibilità richiesta dall’art. 2598 n° 1 prima parte c.c. può determinarsi per la sola esistenza del sito identificato con il nome di dominio, a prescindere dal fatto che nel suo contenuto si riportino specificazioni atte a differenziare senza dubbio la propria offerta informatica rispetto a quella del concorrente, poiché il segno identificativo del sito – cioè il suo domain name - ha già in sè il potere di attrazione dell’utenza in funzione della quale le risorse pubblicitarie vengono destinate. Rispetto a tale mercato, in altre parole, il sito ha funzione di contenitore del prodotto, e non v’è dubbio che anche nel mercato "reale" l’identità del contenitore, e quindi del segno che esso incarna o dei segni che su di esso sono riprodotti, rende concreto il rischio confusorio anche in presenza di una diversificazione, anche notevole, dei prodotti che in essi siano contenuti, ma che non siano – come il contenuto del sito - immediatamente percepibili dal potenziale acquirente prima ed a prescindere dal contenitore;

d) una volta determinato come sopra l’ambito di operatività dell’art. 2598 n° 1 prima parte c.c., in relazione alla mera registrazione di un nome a dominio resta ben poco spazio operativo alle altre ipotesi legali di concorrenza sleale. Poiché, infatti, il domain name va ascritto alla categoria dei segni distintivi, ove esso non interferisca con l’ambito di tutela degli altrui segni deve escludersi in radice la possibilità che con esso possa realizzarsi una delle altre ipotesi di concorrenza sleale disciplinate dalla legge (salva la marginale ipotesi di un domain name in sè denigratorio, che cioè esprima un significato di discredito del concorrente, come potrebbe essere un sito denominato posteitalianeinefficienti.it), che tutte presuppongono l’adozione di mezzi od il compimento di atti diversi ed ulteriori rispetto all’appropriazione degli altrui segni; ipotesi (quali la concorrenza confusoria realizzata con "qualsiasi altro mezzo", l’appropriazione di pregi, la violazione dei doveri di correttezza professionale, ed anche l’imitazione servile, ove si consideri il sito quale prodotto o servizio offerto al mercato della pubblicità informatica) ordinariamente realizzabili anche in internet attraverso uno specifico contenuto del sito, ma non attraverso la semplice adozione di un determinato nome di dominio.

6.3) Resta infine da chiarire che l’attività di c.detto cybersquatting – cioè la registrazione in proprio di domain names potenzialmente oggetto dell’altrui interesse, al solo fine di rivendita all’interessato - allo stato della attuale legislazione italiana, o costituisce condotta interferente con l’altrui privativa in materia di nomi o segni distintivi, ex l.m., ed allora è in detti ambiti che va sanzionata; o non interferisce con altrui segni proteggibili, ed allora deve considerarsi lecita, posto che:

-          per un verso, essa non può - in sé - sanzionarsi ex art. 2598 c.c., non potendo già in astratto considerarsi in rapporto di concorrenza chi svolga esclusivamente l’attività (da considerarsi ovviamente imprenditoriale) di rivendita di nomi a dominio rispetto a chi eserciti altra attività, pur se potenzialmente incrementabile attraverso l’uso della rete informatica e, in particolare, di un sito caratterizzato da quel domain name oggetto dell’altrui registrazione;

-          per altro verso, essa neppure può ricondursi ad un caso di ordinario illecito aquiliano, ex art. 2043 c.c., in quanto, nell’attuale assenza di norme di legge che ritengano in sè illecita detta condotta, tale altrui registrazione deve ritenersi consentita, a nulla rilevando il divieto a tal fine previsto nelle regole di naming, che non hanno attitudine a qualificarla quale illecito sul piano dell’ordinamento generale.

7) Fatte queste necessarie premesse, occorre partitamente occuparsi delle varie domande proposte in causa.

8) Azione di contraffazione e riconvenzionale di nullità del marchio.

La domanda riconvenzionale di nullità è stata espressamente proposta nei soli confronti del marchio "bancoposta"; ma anche l’azione di contraffazione ai sensi del R.D. n°929/42 (c.detta legge marchi, o l.m.) è in astratto concepibile soltanto rispetto a tale segno, che è l’unico per cui Poste Italiane s.p.a. ha richiesto la formale registrazione del marchio, essendo pacifico che i marchi di fatto – quali sarebbero, secondo prospettazione, "vaglia" e "raccomandata"- non godono della tutela speciale della l.m., ma soltanto di quella generale di cui all’art. 2598 n°1 c.c.

In realtà, non risulta in causa che per tale segno sia stata rilasciata la registrazione richiesta con la domanda del 1998: non solo non è stata infatti offerta alcuna prova in proposito, ma le parti, fin nelle difese finali, hanno continuato a sviluppare le proprie contrapposte argomentazioni rispetto ad una fattispecie di marchio in corso di registrazione.

Stando così le cose, entrambe tali domande vanno dichiarate improcedibili.

Invero, con riferimento all’azione di contraffazione, se dal coacervo degli artt. 56, 61 e 63 l.m. si comprende che, sul piano processuale, l’azione di contraffazione è proponibile dal titolare di marchio in corso di registrazione, è per altro verso evidente che, sul piano sostanziale, tale normativa conferisce il diritto di esclusiva tutelabile solo a seguito della registrazione, sia pure con effetto ex tunc dalla domanda (artt. 2 e 4 l.m.). La registrazione, pertanto, deve considerarsi condizione dell’azione di contraffazione e, in quanto tale, deve sussistere al momento della decisione, a pena di improcedibilità della domanda. Né è possibile disporre la sospensione del presente processo, ex art. 295 c.p.c., in attesa del rilascio della registrazione, poiché tale norma – sia nell’originaria formulazione, che a maggior ragione nell’attuale, introdotta dall’art. 35 della legge n° 353/90 a partire dal 1 gennaio 1993 - consente la sospensione soltanto in caso di pregiudizialità derivante da giudizio (anche amministrativo), essendo invece escluso il ricorso a tale potere in rapporto alla pendenza di un procedimento amministrativo non giurisdizionale, qual è quello di rilascio della registrazione del marchio (giurisprudenza pacifica: vedi, ex multis, Cass., sez. lav., sent. n° 5093 del 19 agosto 1986, n° 8536 del 19 novembre 1987 e n° 278 del 20 aprile 1990; sez. I, sent. n° 466 del 26 gennaio 1990; sez. II, sent. n° 15115 del 22 novembre 2000).

Analogamente, è chiaro che l’azione di nullità, del pari proponibile contro un marchio in attesa di registrazione, stante il chiaro e generale disposto dell’art. 56 l.m., è a sua volta condizionata nella procedibilità al sopravvenuto rilascio della registrazione medesima al momento della decisione.

9) Azione di concorrenza sleale

Tale domanda è stata proposta dall’attrice in relazione a tutti e tre i segni in questione, e sotto ogni profilo contemplato dall’art. 2598 c.c..

9.1) In diritto, occorre premettere che "in tema di concorrenza sleale, presupposto indefettibile della fattispecie di illecito prevista dall'art. 2598 c.c. è la sussistenza di una effettiva situazione concorrenziale tra soggetti economici, il cui obiettivo consiste nella conquista di una maggiore clientela a danno del concorrente. Ne consegue che la comunanza di clientela - data non già dalla identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti delle due imprese, bensì dall'insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato, e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti che quel bisogno sono idonei a soddisfare - è elemento costitutivo di detta fattispecie, la cui assenza impedisce ogni concorrenza…… Peraltro, la sussistenza della predetta comunanza di clientela va verificato anche in una prospettiva potenziale, dovendosi, al riguardo, esaminare se l'attività di cui si tratta, considerata nella sua naturale dinamicità, consenta di configurare, quale esito di mercato fisiologico e prevedibile, sul piano temporale e geografico, e, quindi, su quello merceologico, l'offerta dei medesimi prodotti, ovvero di prodotti affini o succedanei rispetto a quelli attualmente offerti dal soggetto che lamenta la concorrenza sleale" (giurisprudenza pacifica: così Cass., sez. I, sent. n°1617 del 14 febbraio 2000).

9.2) Ciò premesso, Poste Italiane e Daniele Malavasi , anche se svolgono attività primarie del tutto divergenti, vanno considerati in rapporto di concorrenza rispetto allo specifico mercato della raccolta della pubblicità su internet.

Se, infatti, pare evidente che il Daniele Malavasi ha registrato i nomi a dominio per cui è causa allo scopo principale di rivenderli a Poste Italiane (risulta in atti che egli ha infatti registrato vari domini oggetto di potenziale interesse di terzi, pubblicando sul suo sito www.clic.it una fantomatica "borsa top-domini" con i prezzi di rivendita - vedi doc. 20 di parte attrice-, e quindi è agevole individuare nella rivendita dei siti il suo primario interesse commerciale), o quantomeno di negoziare con essa un rapporto di collaborazione informatica, muovendo dalla posizione di forza derivante dalla registrazione dei siti in questione (si veda la lettera 10 maggio 2000 inviata dal Daniele Malavasi alle Poste Italiane e da questa prodotta quale doc.12 del fascicolo cautelare), tuttavia risulta che lo stesso ha fin dall’inizio indirizzato il sito "bancoposta.it" allo svolgimento di attività di ausilio e consulenza nell’utilizzo del servizio bancoposta, invitando gli utenti a richiedergli informazioni all’indirizzo e-mail info@bancoposta.it (vedi pagina dimostrativa, prodotta da entrambe le parti). Risultando inoltre che analoga operazione il Daniele Malavasi ha svolto in relazione al sito bonifico.it (vedi doc. 22 di parte attrice), è agevole ritenere che costui, tramontata l’ipotesi di accordi con le Poste ed in assenza della sua reazione giudiziaria, avrebbe sviluppato l’attività preannunciata e realizzato analoghe operazioni per gli altri siti vaglia.it e raccomandata.it, oggetto di sospensione cautelare nella fase pre-dimostrativa – in cui la pagina iniziale riporta solo l’indicazione "attivazione imminente", unita al nome del suo titolare (v. doc. 9 e 10 di parte attrice).

Tanto basta per ritenere già realizzata la particolare specie di concorrenza di cui si è parlato in precedenza. Dovendo infatti, il rapporto di concorrenza valutarsi a livello potenziale, "in relazione ad una possibile estensione o espansione nel futuro dell'attività imprenditoriale, purché in termini di rilevante probabilità", tenendo conto anche delle "attività preparatorie all'esercizio dell'impresa, quando si pongano in essere fatti diretti a dare inizio all'attività produttiva, costituenti manifestazione di attività imprenditoriale in fase organizzativa" (così Cass., sez. I, sent. n° 10728 del 15 dicembre 1994), è evidente la ricorrenza di tale rapporto nella specie, stante il probabile futuro sviluppo dei siti in questione da parte del Daniele Malavasi in termini di offerta di ausilio e consulenza in tema di servizi di bancoposta, vaglia e raccomandata, cui va assegnata una chiara attitudine all’intercettazione dell’utenza interessata a detti servizi e, quindi, di quel segmento del mercato intenzionato a pubblicizzare su internet i propri prodotti e servizi presso tale tipologia di utenza, evidentemente condivisa con Poste Italiane. Tali siti, in prospettiva, si rivolgono dunque allo stesso mercato pubblicitario interessato ai prodotti informatici dell’attrice e, quindi, il rapporto di concorrenza sussiste.

9.3) Occorre pertanto passare all’analisi delle singole fattispecie di concorrenza sleale denunciate, a partire da quella confusoria per interferenza fra segni distintivi, di cui all’art. 2598 n° 1 c.c., che va riguardata non soltanto in rapporto a "vaglia" e "raccomandata", espressamente dedotti in causa quali marchi di fatto in preuso nazionale, ma anche in rapporto a "bancoposta", per cui è stata invece formalmente chiesta tutela - anche ex art. 2598 c.c. - quale marchio assimilato a quello registrato, sulla scorta di una prospettazione fattuale che invece (in attuazione del principio processuale secondo cui spetta al giudice il compito di qualificare correttamente la fattispecie sottoposta al suo esame) ne importa la riqualificazione giuridica negli identici termini di marchio non registrato in preuso nazionale.

A tal proposito, premesso che non è qui in discussione il fatto che Poste Italiane (e prima ancora i suoi danti causa) ha effettivamente preusato i tre citati segni denominativi a livello nazionale, occorre considerare che il marchio di fatto può ricevere la suddetta tutela - ove ricorrano gli ulteriori presupposti di legge e, segnatamente, il rischio confusorio - soltanto ove esso goda di una astratta attitudine alla registrazione e, quindi, possieda tutti i requisiti a tal fine richiesti dalla legge, primo fra tutti la capacità distintiva (si vedano, ex multis, Cass., sez. I, sentt. n° 5462 del 20 ottobre 1982, n° 3224 del 1 aprile 1994 e n° 91 del 8 gennaio 1998): non a caso, infatti, l’art. 2598 c.c. parla di segni "distintivi", mentre gli artt. 2569 e 2571 c.c., così come l’art. 9 l.m., parlano di "marchi non registrati", con ciò chiaramente riferendosi a segni registrabili quali marchi.

Nell’indagine che qui occupa, occorre dunque verificare se i segni per cui si chiede tutela siano astrattamente registrabili quali marchi; il che significa stabilire se essi non ricadano nei divieti di legge e in particolare - per quello che qui interessa - nell’art. 18 l.m., secondo cui "non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d'impresa…..b) i segni costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono…".

9.3.1) Il segno denominativo "bancoposta" possiede tale astratta attitudine alla registrazione quale marchio.

In effetti, tale locuzione è stata creata dal legislatore (limitando la ricerca storica a partire dal secondo dopoguerra, essa si rinviene già nell’art. 17 del DPR n° 542 del 1953, e viene poi via via utilizzata in varie leggi) per definire l’insieme dei servizi di natura bancaria e parabancaria offerti dall’Amministrazione delle Poste e poi dai suoi successori – dapprima Ente Poste, ed ora Poste Italiane s.p.a. In particolare, l’art. 100 del codice Postale adottato col DPR n°156/73, intitolato "servizi di bancoposta" – che apre il libro terzo interamente dedicato alle regole di tali servizi – raggruppava sotto tale locuzione unitaria le attività di emissione e pagamento dei vaglia, riscossione dei crediti, conti correnti, libretti di risparmio e buoni postali fruttiferi, chiarendo che a detti servizi si applicavano le disposizioni dell’art. 27 co. 2°, destinate ai servizi accessori dell’Amministrazione Postale, ovvero ai servizi diversi da raccolta, trasporto e distribuzione di corrispondenza e pacchi. Tali servizi accessori di natura bancaria sono rimasti poi estranei all’applicazione del D. Lgs. n° 261/99, che in attuazione della direttiva 97/67/CE e della legge delega n° 448/98 ha definito il concetto di servizio postale universale (che comprende tutta l’attività di raccolta, trasporto, smistamento e distribuzione di invii postali – cioè corrispondenza, libri, cataloghi, giornali, periodici e merci prive di valore commerciale - fino a 2 kg e pacchi fino a 20 kg, nonché i servizi relativi agli invii raccomandati od assicurati) - introducendo tra l’altro i principi della concorrenza, diacronica in relazione al servizio postale universale (che resta affidato ad un solo fornitore per tutto il territorio nazionale – che, in sede di prima attuazione, è Poste Italiane s.p.a., per non oltre 15 anni-, che però non sarà in futuro necessariamente quello attuale), e sincronica in relazione ai servizi non rientranti nel servizio universale – che possono essere offerti da chi riceva l’apposita autorizzazione generale del Ministero delle comunicazioni - ed ai singoli servizi del servizio universale non riservati al suo fornitore – che possono essere offerti anche da chi ottenga il rilascio di apposita licenza individuale.

Detti servizi, invece, in attuazione della medesima delega, sono stati nuovamente regolamentati con il D.P.R. n° 144/01, ove risulta ancor meglio esplicitato che con la locuzione "bancoposta" si designa quell’insieme di attività (comprendente la raccolta di risparmio tra il pubblico come definita dall’art.11 co.1° del T.U. bancario, la raccolta del risparmio postale, i servizi a pagamento di cui all’art. 1 co.2° lett. f) nn°4 e 5 del T.U. bancario, il servizio di intermediazione in cambi, la promozione ed il collocamento presso il pubblico di finanziamenti concessi da banche ed intermediari finanziari abilitati ed i servizi d’investimento ed accessori previsti dall’art. 1 co.5° lett. b, c ed e nonché dall’art. 1, co.6°, lett. a, b, d, e, f, e g del T.U. finanza) svolte esclusivamente da Poste Italiane s.p.a., senza necessità di iscrizione in albi ed elenchi, rispetto alle quali Poste è equiparata alle banche italiane, anche ai fini dell’applicazione delle norme dei TT.UU. bancario e della finanza.

In definitiva, la locuzione "bancoposta" non costituisce denominazione generica di un servizio, ma rappresenta il nome specifico di quell’insieme di servizi di natura bancaria svolti dapprima dall’Amministrazione postale ed ora da Poste Italiane s.p.a., del tutto estranei al processo di liberalizzazione che interessa i servizi postali primari.

Non v’è pertanto alcun conflitto con il divieto posto dall’art. 18 l.m., che è volto ad impedire l’appropriazione individuale quale marchio della denominazione generica di un prodotto o di un servizio al chiaro scopo di permettere ad ogni concorrente di utilizzarla per definire quel prodotto e quel servizio, laddove nella specie, invece, la denominazione "bancoposta" individua (da sempre) un complesso di attività caratterizzate oggettivamente dalla natura bancaria e soggettivamente dal fatto di poter essere svolte esclusivamente (dall’Amministrazione postale ed ora) da Poste Italiane s.p.a., ed è quindi per questa ragione segno denominativo dotato di altissima capacità distintiva.

Precisato che nella fattispecie che qui occupa è superfluo qualificare tale segno come "forte" o "debole", visto che il conflitto è in essere con un segno denominativo assolutamente identico, ovvero con il second level domain "bancoposta" (è pacifico, infatti, che anche i marchi deboli ricevono tutela contro l’usurpazione, ovvero contro la ripetizione pedissequa del segno), e chiarito che il preuso proprio non distrugge la novità del segno ai fini della sua registrazione quale marchio, come espressamente detto dall’art. 17 1b ultima parte l.m., deve pertanto concludersi nel senso della astratta registrabilità quale marchio del segno denominativo "bancoposta" da parte dell’attrice e, quindi, della sua tutelabilità ex art. 2598 n° 1 prima parte c.c. quale marchio di fatto in preuso nazionale.

Tale tutela va in concreto effettivamente apprestata, poiché, per quanto detto al precedente punto 6.2.c), il rischio confusorio ulteriormente richiesto da tale norma si determina per effetto della mera esistenza dell’altrui sito identificato con il nome di dominio interferente con il segno da proteggere, in sè idoneo ad intercettare gli utenti interessati a tale servizio e quindi a sviare la pubblicità ad essi destinata.

9.3.2) La locuzione "raccomandata" non può invece ritenersi munita di astratta attitudine alla registrazione quale marchio.

Tale parola, infatti, che è polisenso, nel suo significato tecnico costituisce da sempre la denominazione generica di un prodotto postale – e per traslato del relativo servizio - costituito da corrispondenza che, dietro pagamento di oneri aggiuntivi, viene garantita forfettariamente dai rischi di smarrimento e per la quale il mittente riceve prova documentale della consegna all’ufficio postale e, a richiesta, dell’effettivo inoltro al destinatario.

Detto prodotto, o servizio, è stato con il D. Lgs n° 261/99 – ove viene chiamato "invio raccomandato" - ricompreso nel servizio universale ma, nella parte non oggetto della riserva di cui all’art. 4 co. 1° e 5°, liberalizzato, nei limiti dell’art.5.

In definitiva, "raccomandata" costituisce la denominazione generica di un prodotto, e del relativo servizio, che può essere oggi in parte offerto al pubblico anche da soggetti diversi da Poste Italiane. La sua registrabilità quale marchio – e quindi la sua tutelabilità quale marchio di fatto - va pertanto esclusa in base al disposto dell’art. 18 l.m., che come detto inibisce l’appropriazione individuale di tali denominazioni generiche, laddove esse siano patrimonio comune degli operatori commerciali in regime di concorrenza.

Né pare possibile assegnare comunque al marchio di fatto capacità distintiva – e, quindi, attitudine alla registrazione - in base al c.detto secondary meaning (come consentito dal chiaro disposto dell’art.19 l.m.), poiché il fatto – che si può dare per ammesso - che nell’opinione pubblica il termine "raccomandata" abbia nel tempo finito per identificare il prodotto ed il relativo servizio offerto dall’Amministrazione postale e dai suoi aventi causa, a cagione del regime di monopolio esistente, risulta ormai vanificato dalla liberalizzazione introdotta dalla legge, che ha determinato la perdita della capacità distintiva acquisita sul campo dal segno e la sua retrocessione alla primigenia natura di denominazione generica di un prodotto o servizio soggetto a concorrenza – in altre parole, all’acquisto di capacità distintiva per effetto del secondary meaning indotto dal legislatore monopolista, è seguita la perdita di tale nuova capacità per volgarizzazione determinata dal legislatore liberista.

Atteso ciò, l’attrice non può ricevere tutela invocando la locuzione "raccomandata" quale proprio segno distintivo.

9.3.3) La locuzione "vaglia" ancor meno può considerarsi segno distintivo tutelabile, perché esso costituisce la denominazione generica di ogni titolo di credito destinato a trasferire fondi da un luogo ad un altro, laddove i prodotti offerti da Poste Italiane ascrivibili a tale categoria vengono da sempre definiti con la locuzione composta "vaglia postali" - così era intitolato il capo I del libro Terzo del codice del 1973, tale era la dizione contenuta nel titolo dell’art. 104 di tale codice, che li definiva, e tale è la locuzione ora utilizzata negli artt.5 e 6 del D.P.R. n° 144/01 - in modo da contraddistinguerli dalle altre specie di vaglia – bancari (art. 87 ss. legge ass.) e cambiari (art. 100 ss. legge camb.).

In tal caso, dunque, ex art.18 l.m. la tutela va ancor più radicalmente esclusa, non essendo certo consentito a chi offra un prodotto di ottenere protezione sulla denominazione del genere cui esso appartiene quale specie.

9.4) Per quanto detto al precedente punto 6.2), è escluso che possano rinvenirsi, nella semplice adozione delle parole "raccomandata" e "vaglia" quali nomi di dominio, profili di concorrenza sleale diversi da quello testè vagliato, una volta negato qualsiasi diritto di privativa dell’attrice su tali locuzioni; e poiché i siti muniti di tali domain names non sono mai stati sviluppati dal Daniele Malavasi, né è possibile ipotizzarne un probabile futuro sviluppo in termini confliggenti con le altre regole della corretta concorrenza, va esclusa, rispetto ad essi, ogni tutela richiesta da Poste Italiane s.p.a. ex artt. 2598 c.c..

10) azione ex art. 2043 c.c..

L’attrice, infine, ha dedotto che l’altrui registrazione dei tre siti in questione sarebbe comunque ascrivibile ad ordinario illecito aquiliano, siccome effettuato in violazione di vari divieti normativi.

Orbene, premesso che tale domanda in relazione al sito “bancoposta.it” è da ritenersi assorbita dall’accoglimento della domanda ex art. 2598 c.c., rispetto alla quale non presenta alcun profilo di autonomia teleologica, in relazione ai siti “raccomandata.it” e “vaglia.it”, richiamato quanto detto al precedente punto 6.3) in ordine alla liceità dell’attività di cybersquatting in sé considerata, l’assunto non può essere affatto condiviso, in quanto:

- l’adozione di tali locuzioni quali domain names non può dirsi in conflitto con le normative in materia bancaria e di intermediazione finanziaria, che riservano a determinate categorie le attività in questione, certo non svolte dal Daniele Malavasi. In particolare, tale adozione non confligge con il disposto dell’art.133 del T.U. bancario, poiché né "vaglia" – che è termine generico relativo a vari titoli di credito, non necessariamente bancari - né tantomeno "raccomandata" – che nulla ha a che fare con l’attività bancaria - possono considerarsi "locuzioni idonee a trarre in inganno sulla legittimazione allo svolgimento dell’attività bancaria";

- come detto, il servizio degli invii raccomandati non è più riservato a Poste Italiane. In ogni caso, l’apertura del sito raccomandata.it da parte del Daniele Malavasi non può dirsi necessariamente propedeutica allo svolgimento del relativo servizio;

- il generico richiamo alla legge sulla privacy risulta francamente incomprensibile;

- esclusa la valenza distintiva dei segni denominativi in questione, non v’è spazio per la fattispecie dell’art. 473 c.p., né può rinvenirsi nell’adozione di essi quali domain names un uso di mezzi fraudolenti ex art. 513 c.p.;

- anche il richiamo alle norme in materia di pubblicità ingannevole è fuori luogo, posto che i nomi di dominio non costituiscono messaggi pubblicitari, nel senso definito dall’art.2 del D. Lgs. n° 74/92;

- infine, nell’altrui appropriazione di tali nomi di dominio non è rinvenibile alcuna diffamazione in danno dell’attrice, né tantomeno attitudine a lederne nome, immagine o identità.

11) In definitiva, la domanda principale proposta dall’attrice va accolta soltanto in relazione al domain name "bancoposta.it", individuandosi nella registrazione del relativo sito da parte del Daniele Malavasi un caso di concorrenza sleale confusoria ex art. 2598 n° 1 prima parte c.c..

12) Pronunce conseguenti

a)       Il rigetto di ogni domanda relativa ai siti "raccomandata.it" e "vaglia.it" determina l’immediata perdita d’efficacia del provvedimento cautelare ante causam ad essi riferito, che va qui dichiarato, ex art. 669 novies co.3° c.p.c.. Conseguentemente, la Registration Authority (ora chiamata "Registro del ccTLD it", o semplicemente "Registro") dovrà provvedere all’immediato ripristino dell’assegnazione al Daniele Malavasi –come del resto previsto dalla regola di naming 12.1.

b)       In relazione a detto rigetto, non è possibile accogliere la riconvenzionale risarcitoria avanzata dal Daniele Malavasi - anche ex art. 96 c.p.c.-, posto che costui ne ha richiesto la liquidazione equitativa (e non anche la pronuncia generica) senza offrire alcun elemento su cui fondare la relativa condanna, come avrebbe dovuto (si veda, ex multis, la recente Cass., sez. II, sent. n° 2874 del 26 febbraio 2003, secondo cui "il potere del giudice di liquidare il danno con valutazione equitativa presuppone che la parte interessata fornisca non solo la prova dell'esistenza ontologica del danno e dell'impossibilità di provarlo nel suo preciso ammontare, ma anche gli elementi probatori ed i dati di fatto che ne consentano la determinazione").

c)       L’accoglimento della domanda ex art. 2598 c.c. in relazione al sito bancoposta.it impone, in primo luogo, ex art. 2599 c.c., di inibire a Daniele Malavasi la continuazione dell’attività illecita. Gli va quindi vietato ogni ulteriore utilizzo della locuzione "bancoposta" per contraddistinguere proprie attività commerciali, ivi compreso l’uso di tale locuzione quale parte denominativa di siti internet.

d)        In secondo luogo, quale opportuno provvedimento ex art. 2599 c.c., va disposta la revoca della registrazione del nome a dominio suddetto in capo al Daniele Malavasi, mediante ordine al Registro di rimuovere dal Registro dei Nomi Assegnati (RNA) l’assegnazione del nome a dominio "bancoposta.it" in favore del Daniele Malavasi.

e)       Non può invece giudizialmente procedersi alla richiesta riassegnazione all’attrice di tale domain name, poiché una pronuncia del genere, escludendo ogni altro dal concorso nell’assegnazione, presupporrebbe l’affermazione in causa del diritto assoluto al segno distintivo, che è inibita dalla attuale mancanza della registrazione del marchio, e non può quindi rendersi quale statuizione conseguente a pronuncia resa ex art.2598 c.c., che, a differenza di quelle adottabili ex l.m., non ha efficacia reale erga omnes, ma personale contro il concorrente sleale. Ne consegue che tale nome a dominio dovrà riassegnarsi secondo le regole interne di naming (fermo il divieto del Daniele Malavasi di concorrere a detta riassegnazione, per effetto della disposta inibitoria), che peraltro prevedono in tal caso una procedura di favore nei confronti di chi abbia ricevuto tutela in sede giudiziaria (in sintesi, il Registro invita entro dieci giorni dalla risoluzione della contestazione la parte vittoriosa ad iniziare la normale procedura per l’assegnazione, provvedendo a rendere disponibile il nome per libera assegnazione soltanto ove tale parte non inizi la procedura entro trenta giorni dalla risoluzione: vedi regola 14.6).

f)        Va però specificato che dette pronunce sono – al pari di ogni altra - provvisoriamente esecutive ex art. 282 c.p.c., sicché sia la revoca, che la conseguente procedura di riassegnazione, dovranno essere immediatamente attuate. Ciò, nonostante le regole di naming (14.4 lett. c) condizionino detta attuazione al passaggio in giudicato della pronuncia dell’autorità giudiziaria, non potendo certo un regolamento convenzionale derogare ai principi generali del processo e porsi quale regola cogente alternativa nei confronti dell’Autorità Giudiziaria.

g)       In relazione alla domanda accolta, Daniele Malavasi va poi come richiesto dall’attrice genericamente condannato al risarcimento dei danni nei confronti dell’attrice, con rinvio della liquidazione a separato giudizio. Non v’è dubbio, infatti, che l’appropriazione – per quanto detto illecita - del domain name "bancoposta.it" da parte del Daniele Malavasi ha finora impedito alle Poste Italiane di usufruire di un sito così denominato, che all’evidenza rappresenta il miglior veicolo informatico per la promozione dei servizi bancari dell’attrice, tanto per l’identità fra il second level domain ed il nome che raggruppa tali servizi, quanto per il TLD di più immediata riconoscibilità da parte dell’utenza italiana, cui essa principalmente si rivolge. Che il ritardo nell’utilizzo di tale sito abbia determinato nell’attrice una perdita di raccolta pubblicitaria deve pertanto considerarsi nozione assolutamente intuitiva; e tanto basta per la pronuncia qui richiesta, che invoca certezza soltanto sull’esistenza di un danno risarcibile, nella specie all’evidenza sussistente.

h)       L’istanza di preventiva fissazione del risarcimento dovuto per future violazioni dell’inibitoria qui disposta e per ritardo nell’esecuzione della presente sentenza non può invece accogliersi in relazione all’inibitoria ed agli altri provvedimenti conseguenti all’affermata condotta di concorrenza sleale, poiché il collegio condivide il prevalente orientamento giurisprudenziale (v., fra le altre, Trib. Ancona, 12 aprile 1999; Trib. Milano, 21 novembre 1991 e 15 settembre 1988, Trib. Firenze, 11 dicembre 1990), secondo cui la norma speciale dell’art. 66 l.m. è insuscettibile di applicazione estensiva, né d’altro canto è dato rinvenire nel sistema civile una regola generale che preveda sanzioni monetarie per l’inosservanza di ordini giudiziali o per l’inadempimento di obblighi di fare, ovvero contempli forme generalizzate di anticipazione del risarcimento del danno.

i)         E’ il caso, infine – nell’esercizio del potere discrezionale a tal fine assegnato al giudice tanto in punto an che in punto quomodo (vedi, ex multis, Cass., sez. I, sent. n° 1982 del 11 febbraio 2003) - di accogliere anche l’istanza di pubblicazione avanzata dall’attrice ex art. 2600 c.c., da limitarsi peraltro ad un estratto del dispositivo della presente sentenza, a cura e spese del convenuto Daniele Malavasi, con le modalità indicate in dispositivo.

13) Posizione di CNR e NA

a) Nei confronti del Consiglio Nazionale delle Ricerche e della Naming Authority Italiana, l’attrice ha in sede di precisazione delle conclusioni abbandonato la domanda risarcitoria fondata su un loro asserito concorso nell’illecito perpetrato da Daniele Malavasi.

E’ il caso di precisare, peraltro, che tale domanda non avrebbe potuto comunque trovare accoglimento:

-nei confronti del CNR – quale gestore dell’attività di registrazione dei nomi a dominio - poiché (limitando l’esame alla fattispecie qui in considerazione) non è ipotizzabile a suo carico un dovere di diligenza esteso fino al controllo preventivo delle interferenze fra i domain names oggetto di registrazione e gli altrui segni proteggibili non ancora registrati quali marchi;

- nei confronti della Naming Authority – quale autore delle regole di assegnazione dei nomi a dominio - poiché del pari non può pretendersi che esso introduca delle regole di controllo preventivo delle interferenze suddette.

b) Risultano invece confermate le altre richieste ab initio avanzate nei loro confronti, rispetto alle quali va precisato che:

- le richieste sub 2, c ed e delle conclusioni riportate in epigrafe vanno disattese, in quanto volte ad ottenere pronunce (di accertamento e condanna) assolutamente superflue, perché in sostanza ripetitive delle statuizioni rese nella soluzione del conflitto con il Daniele Malavasi, rispetto alle quali il Registro (e non anche la Naming Authority, che nulla c’entra) si pone quale destinatario esterno dell’esecuzione dei provvedimenti, tenuto alla loro osservanza senza alcuna necessità della sua partecipazione al giudizio;

-la richiesta sub d, volta ad ottenere la revoca d’ufficio dell’assegnazione dei siti previe varie indagini interne, è invece – prima ancora che proposta in carenza di interesse, visto che è stata contestualmente richiesta la revoca giudiziaria - chiaramente da rigettarsi per inammissibilità, perché il giudice è chiamato a risolvere i conflitti in base alle regole generali dell’ordinamento, ma non può certo riscrivere le regole interne di organizzazione degli enti convenuti – in ciò si risolve, in sostanza, la predetta richiesta -, che sono notoriamente a base esclusivamente privatistica.

 14) Spese giudiziali

a)       L’attrice va condannata all’integrale rimborso delle spese sopportate dal CNR e dalla Naming Authority per il presente giudizio – non essendosi dette parti costituite nella fase cautelare anteriore -, stante la sua completa soccombenza derivante da quanto detto al punto che precede;

b)       nel rapporto fra attrice e Daniele Malavasi , la valutazione quantitativa della reciproca soccombenza va risolta in condanna del Daniele Malavasi al rimborso di un terzo delle spese sopportate da Poste Italiane per il giudizio principale e la fase cautelare ante causam (ivi compresa quella di reclamo), con compensazione delle spese residue, ivi comprese tutte quelle relative ai procedimenti incidentali in corso di causa.

c)       Tali spese si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale di Modena, definitivamente pronunciando nel giudizio introdotto da Poste Italiane s.p.a. nei confronti di Daniele Malavasi , della Naming Authority Italiana e del Consiglio Nazionale delle Ricerche con atto di citazione notificato in data 9-10 ottobre 2000, ogni altra istanza disattesa, così provvede:

1) DICHIARA IMPROCEDIBILI le contrapposte domande di contraffazione e nullità del marchio "bancoposta" rispettivamente proposte dall’attrice Poste Italiane s.p.a. e dal convenuto Daniele Malavasi ;

2) RIGETTA ogni domanda proposta da Poste Italiane s.p.a. allo scopo di ottenere tutela in relazione alla registrazione, da parte di Daniele Malavasi, dei domain names “raccomandata.it” e “vaglia.it”;

DICHIARA, conseguentemente, l’immediata perdita d’efficacia del provvedimento cautelare ante causam ad essi riferito, dando atto che pertanto il Registro del ccTLD it dovrà provvedere all’immediato ripristino dell’assegnazione di tali nomi a dominio in capo a Daniele Malavasi ;

RIGETTA la domanda di risarcimento dei danni proposta da quest’ultimo;

3) in parziale accoglimento della domanda proposta da Poste Italiane s.p.a. allo scopo di ottenere tutela in relazione alla registrazione, da parte di Daniele Malavasi, del domain name bancoposta.it

DICHIARA che detta registrazione costituisce atto di concorrenza sleale ex art. 2598 n° 1 c.c.;

INIBISCE, pertanto, a Daniele Malavasi ogni ulteriore utilizzo della locuzione "bancoposta" per contraddistinguere proprie attività commerciali, ivi compreso l’uso di tale locuzione quale parte denominativa di siti internet;

REVOCA la registrazione del nome a dominio suddetto in capo al Daniele Malavasi, mediante ordine al Registro di rimuovere dal Registro dei Nomi Assegnati (RNA) l’assegnazione del nome a dominio "bancoposta.it" in favore del Daniele Malavasi;

DA’ ATTO che tale nome a dominio andrà dal Registro riassegnato secondo le regole interne di naming;

SPECIFICA che sia la revoca, che la conseguente procedura di riassegnazione, dovranno essere immediatamente attuate, essendo la presente pronuncia provvisoriamente esecutiva;

CONDANNA Daniele Malavasi al risarcimento dei danni causati a Poste Italiane s.p.a. in dipendenza di tale condotta sleale, in misura da determinarsi in separato giudizio;

DISPONE la pubblicazione del dispositivo della presente sentenza, per estratto contenente l’intestazione del dispositivo e le statuizioni di cui ai punti 1, 2, 3, per una volta, sulle pagine nazionali del quotidiano "Corriere della Sera" e sulle pagine della sezione relativa alla provincia di Modena del quotidiano "Il Resto del Carlino", su due colonne, a cura e spese di Daniele Malavasi , entro sessanta giorni dalla data di pubblicazione della presente sentenza;

4) dato atto che Poste Italiane s.p.a. ha abbandonato la domanda risarcitoria originariamente svolta nei confronti della Naming Authority Italiana e del Consiglio Nazionale delle Ricerche;

RIGETTA ogni ulteriore domanda proposta da Poste Italiane nei loro confronti;

5) CONDANNA Poste Italiane s.p.a. al rimborso delle spese sopportate dalla Naming Authority Italiana e dal Consiglio Nazionale delle Ricerche per il presente giudizio, che liquida:

-quanto alla Naming Authority Italiana in complessivi €.7.173,38 oltre spese generali ed accessori dovuti per legge, di cui €.410,00 per esborsi, €.1.763,38 per diritti ed €.5.000,00 per onorario;

-quanto al Consiglio Nazionale delle Ricerche in complessivi €. 6.711,69 oltre spese prenotate a debito del Campione Civile, di cui €. 2.011,69 per diritti ed € .4.700,00 per onorario;

6) CONDANNA Daniele Malavasi al rimborso di un terzo delle spese sopportate da
Poste Italiane s.p.a. per il giudizio principale ed il procedimento cautelare ante causam (ivi compresa la fase di reclamo), quota che liquida in complessivi €.8.272,39 oltre spese generali ed accessori dovuti per legge, di cui €. 910,82 per esborsi, €. 1.361,57 per diritti ed €. 6.000,00 per onorario;

DICHIARA le spese residue del giudizio principale e tutte quelle relative ai procedimenti incidentali in corso di causa compensate fra dette parti.


Interferenza fra nome a dominio e marchio: il ruolo del Registro.

 

1. I fatti ed i provvedimenti cautelari – 2. La funzione del Registro e i suoi obblighi. – 3. La natura delle regole di naming.

 

1. I fatti ed i provvedimenti cautelari

La sentenza che si annota costituisce il condivisibile e ben ponderato punto di arrivo di una complessa vicenda iniziata cinque anni fa, in un regime di Internet Governance diverso dall’attuale. Tale vicenda ha prodotto nel corso del suo svolgimento ben quattro provvedimenti su ricorsi cautelari; provvedimenti  che con la sentenza stessa contribuiscono a porre dei punti fermi nelle posizioni e nelle responsabilità dei soggetti coinvolti nelle registrazioni dei nomi a dominio.

La vicenda, avendo avuto echi sulla stampa nazionale, è ormai nota. Il sig. Daniele Malavasi, titolare dell’impresa individuale “Discovogue”,  aveva registrato i nomi a dominio bancoposta.it, vaglia.it e raccomandata.it, ponendovi dei siti nei quali si trovavano, fra le altre cose, commenti in relazione ai servizi di posta raccomandata, vaglia e bancoposta forniti dalle Poste italiane.

Queste ultime, con ricorso in data 28 giugno 2000[1], avevano chiesto al tribunale di Modena un provvedimento cautelare volto ad ottenere l’inibitoria nei confronti del Malavasi all’utilizzo dei nomi “bancoposta”, “vaglia” e “raccomandata” e, più in generale, di qualsiasi temine comunque distintivo dell’immagine, dell’attività, e i prodotti e dei servizi di Poste Italiane S.p.A.

Nel procedimento cautelare le Poste coinvolgevano anche il maintaner [2] dei domini in questione, il C.N.R., in quanto svolgente la funzione di Registration Authority per il ccTLD .it [3], e la Naming Authority, ente cui a quel tempo era ascrivibile la formulazione delle regole di naming sulla cui base i domini erano stati registrati [4]. Nei loro confronti era richiesta l’inibitoria dal compimento di atti che potessero agevolare l’asserito illecito posto in essere dal Malavasi, con ordine di impedire l’uso dei detti domini.

Con provvedimento depositato il 29 luglio 2000, il Tribunale respingeva il ricorso, osservando che i termini che le Poste ritenevano di propria esclusiva pertinenza erano espressioni generiche che indicavano servizi ed attività, e come tali impossibilitati ad essere oggetto di privativa [5].

Il provvedimento di diniego veniva reclamato con successo dalle Poste italiane. Con provvedimento dell’8 settembre 2000, in accoglimento del ricorso, veniva vietato al Malavasi l’impiego dei termini bancoposta, vaglia e raccomandata come nomi di dominio, con immediata chiusura dei relativi siti [6].

Le Poste iniziavano quindi il giudizio di merito, chiedendo la conferma delle ottenute inibitorie e la condanna di tutti i convenuti al risarcimento dei danni.

L’inizio del giudizio non fermava però l’attività cautelare delle parti. Lo scarno dispositivo del provvedimento del collegio, che al di là della mera enunciazione del divieto all’uso dei nomi a dominio in contestazione non specificava le modalità di attuazione della decisione [7], costringeva il giudice della cautela ad un nuovo intervento nel quale si specificava che per chiusura dei siti doveva intendersi la revoca dei relativi domain names in capo al Malavasi ma non anche la contestuale assegnazione degli stessi alle Poste italiane, bensì la sospensione della loro assegnazione all’esito del giudizio di merito [8]. Ulteriori contrapposte richieste di modifica dei provvedimenti cautelari venivano presentate e respinte in corso di causa [9].

La sentenza definitiva riscatta ampiamente le oscillazioni e le incertezze dimostrate dal tribunale nella fase ante causam, collocandosi fra gli estremi di due provvedimenti cautelari di cui il primo aveva negato tutto alle Poste italiane, il secondo tutto aveva concesso.

L’ampia motivazione – nella quale il Tribunale di Modena rivela un approfondita e non comune conoscenza degli aspetti tecnici di internet ed in particolare della registrazione dei nomi a dominio – può considerarsi un utile punto ricognitivo del percorso fatto sino ad oggi dalla giurisprudenza per classificare il nome a dominio e l’applicabilità ad esso della normativa sui marchi e sulla concorrenza sleale [10].

In particolare, il Tribunale conferma l’appartenenza dei nomi a dominio alla categoria dei segni distintivi, seguendo l’ormai prevalente orientamento sia della giurisprudenza [11] che della dottrina [12]; orientamento che ha avuto di recente l’avvallo del legislatore con il nuovo Codice della proprietà industriale recentemente promulgato [13] .

Con ciò può quindi ritenersi definitivamente tramontato il minoritario indirizzo giurisprudenziale che negava l’assimilabilità del nome a dominio con i segni distintivi d’impresa [14], indirizzo peraltro contrastato anche dalla migliore dottrina [15].

Oltre a ciò, la sentenza in esame mostra una non comune competenza tecnica del giudicante nelle questioni sottopostegli e fornisce un preciso quadro sistematico delle posizioni e delle responsabilità dei soggetti coinvolti nella registrazione dei nomi a dominio. Cosa, questa, particolarmente interessante in un settore in cui la tendenza è spesso quella di citare in giudizio tutti i soggetti che intervengono nella registrazione del nome a dominio, anche se privi di alcuna legittimazione in relazione all’illecito perpetrato dall’assegnatario.

 

2. La funzione del Registro ed i suoi obblighi.

Nel caso di specie, le Poste italiane avevano convenuto innanzi al giudice non solo colui che aveva asseritamente compiuto l’illecito consistente nella registrazione dei nomi a dominio, ma anche il maintainer [16], il registro, e financo l’ente preposto alla formulazione delle regole di naming, colpevole di non aver predisposto norme tali da impedire la perpetrazione dell’illecito.

Le domande nei confronti di tali soggetti sono state giustamente respinte, con statuizioni che, in relazione alla posizione del Registro, appaiono particolarmente interessanti per chiarirne il ruolo, sia sostanziale che processuale, nelle dispute relative ai nomi a dominio.

Per quanto attiene al ruolo sostanziale, la sentenza ha confermato che il Registro non ha alcun “dovere di diligenza esteso fino al controllo preventivo delle interferenze fra i domains names oggetto di registrazione e gli altrui segni altrui proteggibili non ancora registrati quali marchi[17]. 

Se la prima parte della statuizione appare condivisibile, qualche perplessità desta la specificazione finale della frase, che, riferendosi esplicitamente ai segni altrui “non ancora registrati come marchi” potrebbe indurre qualcuno a ritenere che il Registro sia tenuto comunque a verificare che il dominio di cui gli si chiede la registrazione non sia un marchio già registrato.

Quest’ultima interpretazione, pur avendo l’appoggio di isolata giurisprudenza [18], non appare però condivisibile, in mancanza di una specifica previsione normativa che, al momento, non esiste [19]. Il Registro infatti svolge e deve svolgere soltanto la funzione tecnica di registrare – e quindi rendere visibile e raggiungibile su Internet – un nome a dominio. Ravvisare a suo carico un obbligo di controllo della preesistenza di un marchio registrato identico al nome a dominio di cui gli si chiede la registrazione significherebbe investirlo di potestà pubbliche di controllo che mal si conciliano con l’attività di natura privatistica che svolge, e che comunque andrebbero contro il generale principio che lascia al soggetto titolare del diritto di privativa la facoltà e l’onere di reagire alla lesione del suo diritto.

Del resto, a tale conclusione si giunge per altra via anche seguendo il discorso della sentenza in esame, secondo cui il nome a dominio è assimilabile all’insegna, in quanto  svolge l’identica funzione di contraddistinguere il luogo – virtuale – in cui l’imprenditore offre i propri prodotti o servizi al pubblico, consentendone al contempo il reperimento e l’individuazione rispetto ai concorrenti”. Se dunque il nome a dominio è assimilabile all’insegna, il Registro potrebbe essere equiparato all’elettricista che, su richiesta dell’imprenditore,  installa l’insegna sulla vetrina del negozio e la collega alla rete elettrica rendendola così visibile al pubblico. Così come non appare sostenibile che l’elettricista che  installa l’insegna sia tenuto a verificare che essa non corrisponda ad un marchio già registrato, così non appare ipotizzabile che il Registro – che in definitiva altro non fa che attivare nel DNS e rendere visibile il nome di dominio scelto dall’utente su Internet – sia tenuto a verificare che esso non leda diritti di privativa altrui [20]. Del resto, l’inesistenza di un obbligo in capo al Registro di controllo dell’interferenza dei nomi a dominio con i marchi è sostenuta sia dalla migliore dottrina [21] che dalla prevalente giurisprudenza [22].

Le conclusioni di cui sopra non sembrano intaccate dalle recenti disposizioni processuali del codice della proprietà industriale, ed in particolare dall’ambigua formulazione dell’art. 118, punto 6, il quale prevede che “la registrazione di nome a dominio aziendale concessa in violazione dell'articolo 22 o richiesta in mala fede, può essere, su domanda dell'avente diritto, revocata oppure a lui trasferita da parte dell'autorità di registrazione.”.

Al di là della infelice formulazione, che astrattamente potrebbe anche essere letta nel senso di attribuire direttamente al Registro la potestà di valutare direttamente le domande degli aventi diritto e decidere sulla riassegnazione dei nomi a dominio, la norma deve essere interpretata come una conferma della necessità che sia l’autorità di registrazione ad effettuare le revoche e le riassegnazioni secondo le norme da essa previste.

Non solo infatti la norma in questione si trova nel capo relativo alla tutela giurisdizionale dei diritti di proprietà industriale, ma presuppone alle spalle un corpus di norme procedurali che esistono soltanto per i procedimenti innanzi al giudice e non certo innanzi al registro, che, fra l’altro, agisce comunque in regime di diritto privato.

Andare di contrario avviso e ritenere che invece l’art. 118 del codice della proprietà industriale affidi direttamente al Registro il potere di valutare ed accogliere le domande di revoca o riassegnazione dei nomi a dominio significherebbe di fatto costituire un giudice speciale  per i nomi a dominio, che in quanto tale sarebbe vietato dall’art. 102, II comma della costituzione [23]. E ciò a prescindere dal fatto che l’art. 118 del codice della proprietà industriale, interpretato in tal senso, non potrebbe neppure avere applicazione alcuna, mancando  qualsiasi norma procedurale o di attuazione.

Per quanto riguarda invece gli aspetti processuali, il Tribunale di Modena ha chiarito la inutilità della citazione in giudizio del Registro, che, al contrario, viene spesso coinvolto a sproposito in giudizi in cui si contesta la legittimità della registrazione del nome a dominio [24].

Sotto questo profilo, la sentenza ha ritenuto il Registro mero destinatario esterno della esecuzione dei provvedimenti giudiziari, e come tale tenuto alla loro osservanza senza necessità di partecipazione al giudizio. Statuizione questa che, come appena visto, appare anticipare quanto disposto dal codice della proprietà industriale all’art. 118 punto 6, nell’interpretazione poc’anzi ritenuta migliore.

 

3. La natura delle regole di naming

Nel respingere la domanda posta nei confronti della Naming Authority, colpevole secondo la ricorrente di non aver predisposto norme che imponessero al Registro di verificare che i nomi a dominio di cui è richiesta la registrazione non interferissero con segni distintivi altrui, la sentenza ha riconosciuto la piena autonomia, sotto il profilo privatistico, delle regole di naming.

Significativa, al riguardo, la circostanza che il tribunale non abbia ritenuto procedere ad una riassegnazione giudiziale del nome a dominio “bancoposta.it” a favore delle Poste italiane, ma abbia statuito che il nome a dominio in questione debba essere riassegnato secondo le vigenti regole di naming in tema di soluzione della contestazione [25].

La sentenza in esame rappresenta quindi un’autorevole avvallo del sistema della Internet Governance italiana vigente all’epoca dei fatti, sistema di cui è riconosciuta la legittimità e l’autonomia sotto il profilo privatistico [26]. Il mutamento intervenuto nel settore appena prima della decisione, con l’assunzione da parte del Registro anche della funzione normativa e la creazione di una commissione consultiva interna deputata alla formulazione delle regole, non appare intaccare la validità dei principi espressi dalla sentenza [27].

Cristina De Marzi



[1] Vale la pena ricordare che al momento in cui fu depositato il primo ricorso ex art. 700 delle Poste italiane non erano state ancora introdotte nel sistema dei nomi a dominio italiano le procedure di riassegnazione, che, ancora in fase di approvazione da parte della Naming Authority, sarebbero divenute operative a partire dal 4 agosto 2000. Il testo delle procedure è disponibile su https://www.crdd.it/norme/cr-map-VG.htm. Sulle procedure di riassegnazione si veda TURINI, Domini Internet e risoluzione dei conflitti, Milano 2000;  FOGLIANI, Mandatory Administrative Proceeding di ICANN e procedure di riassegnazione italiane, in Ciberspazio e diritto, 2002, 333.

[2] Con il termine maintainer si intende quell’operatore tecnico che cura per conto dell’assegnatario la registrazione e la funzionalità tecnica dei nomi a dominio, avendo stipulato un apposito contratto con il Registro dei nomi a dominio italiani. In tale contratto il maintainer è definito come “fornitore di servizi di rete che registra nomi a dominio per conto proprio o di terzi”.  Il contratto fra Registro e maintainer è disponibile all’indirizzo: https://www.nic.it/RA/reg-pm/contratto2005/contratto.pdf. In dottrina, si ritiene che il maintainer possa essere assimilato al soggetto mandatario abilitato per la registrazione del marchio di cui all’art. 77 del r.d. 929/1942 (così SAMMARCO, Il regime giuridico dei nomi a dominio, Milano 2002, 243).

[3] La funzione di Registro del ccTLD è da sempre svolta, in Italia, dal C.N.R.  tramite propri istituti con sede in Pisa. Al momento dei fatti esaminati dalla sentenza, il registro dei nomi a dominio era tenuto dallo I.A.T. (Istituto per le applicazioni telematiche) sotto il nome di Registration Authority; oggi è tenuto dallo I.I.T. (Istituto di informatica e telematica) sotto la denominazione di Registro del ccTLD .it (https://www.nic.it).

[4] La Naming Authority è stato l’ente delegato alla predisposizione delle regole di naming dal 1998 (anno della sua costituzione) all’inizio del 2004, allorché, scaduto il contratto fra Registration Authority e maintainer che le affidava la funzione normativa per il ccTLD .it, la predisposizione delle regole di naming è stata affidata ad una nuova “Commissione per le regole“ creata all’interno del registro con funzione consultiva. Contestualmente la Registration Authority ha cambiato la sua denominazione in “Registro del ccTLD .it”. Sulla istituzione della Commissione, si veda FOGLIANI, Recenti sviluppi nell’Internet Governance italiana: la nuova commissione per le regole del registro del cc.TLD .it, in questa Rivista, 2004, 791.

[5] Appare interessante riportare le parti salienti dell’ordinanza di rigetto del 29 luglio 2000, redatta dal dott. Masoni: “(…) Il nome del sito, infatti, a secondo delle circostanze del caso, potrà essere un mero indirizzo o numero di telefono informatico (per quanto scelto capricciosamente dall’utente), individuativo di un dato hardware della rete, oppure, in relazione al contenuto ed alla configurazione del sito, potrà, invece, avere un senso applicare la normativa sui marchi equiparandolo ad un marchio d’impresa.

E questa seconda soluzione sembra attagliarsi al caso in esame; non sembra dubitabile che il sito del Malavasi, www.bancoposta.it, (unico attivo dei tre presenti in Internet, almeno per ora) possa essere qualificato come “segno distintivo del prodotto o del servizio fornito dall’impresa”.

Il Malavasi è infatti un “venditore di software” il quale esercita, per sua stessa ammissione, un “business di domini Internet”, avendo allestito un’apposita “Borsa top-domini”, ove egli mette in vendita al miglior offerente alcuni “domain names” da lui stesso registrati (cfr. doc. 16 del ricorrente riproduttivo del sito domini.discovogue.it; attività questa illecita in base all’art 1, lett d) del citato disegno di legge governativo); l’esercizio dell’informatica costituisce, poi, il cuore dell’attività svolta dall’impresa del resistente (cfr. doc. 3 del resistente). In particolare, poi, dal tenore della homepage di “bancoposta.it”, emerge il tipo di servizio che l’impresa offre ai navigatori della rete, consistente in un servizio di consulenza per l’apertura di un nuovo conto corrente postale a prezzi modici e per effettuare operazioni di pagamento di bollette ed altro, “bancoposta”  appunto.

In tal caso, sembra corretto, perciò, che il domain name in questione sia equiparato ad un segno distintivo dei prodotti che l’impresa produce ed offre e soggiaccia, pertanto, alla regolamentazione contenuta nella legge marchi.

Affinché poi, possa inibirsi al resistente l’utilizzo dei siti in questione, in base alla normativa richiamata, è necessario che il domain name (equiparato al marchio) appaia tutelabile alla stregua di essa. Ebbene, i nomi che la ricorrente vorrebbe fossero oggetto di propria privativa sono, come si è già ricordato, “bancoposta”, “vaglia” e “raccomandata”. Termini ritenuti di esclusiva pertinenza delle Poste italiane.

Ebbene, il termine vaglia designa “un titolo di credito” (da “valere”) che serve per trasferire fondi (cfr. Il vocabolario Treccani, Conciso, p. 1861, nonché lo Zingarelli, p .1989) e lo stesso può essere tanto postale, quanto bancario, che cambiario (anche detto pagherò; art 100 1. camb.).

Il termine “raccomandata” (da “raccomandazione”; operazione con cui una lettera viene data in raccomandazione, pagandone la relativa tassa, di raccomandazione, appunto) indica “il servizio postale di invio di una lettera o di un plico pagando una speciale soprattassa che da diritto a speciali garanzie da parte dell’amministrazione postale” (cfr. il conciso cit. 1335). Infine, il termine “bancoposta” indica l’insieme dei servizi bancali gestiti dalle poste ed è formato dalle parole generiche di banco e posta.

Come si vede, quelli oggetto di causa, sono espressioni generiche che indicano servizi ed attività, neppure tutte di esclusiva pertinenza delle poste italiane (come nel caso del vaglia che può essere non solo postale, ma anche cambiario e bancario), che, proprio perché generiche ed ormai acquisite nel lessico e nella parola, sono di uso corrente nella lingua italiana e per questa ragione i dizionari li hanno registrati. E proprio quest’ultima circostanza è significativo sintomo e riprova che non si tratti di sostantivi specificativi di un servizio o di un prodotto su cui alcun soggetto possa vantare un diritto di privativa esclusiva, in quanto si tratta, piuttosto, di espressioni generiche, di uso ormai corrente, indicative di servizi o prestazioni di per sé privi di capacità individualizzante e distintiva del fornitore di essi. (…)”. Il testo completo del provvedimento è disponibile all’indirizzo https://fog.it/giurisprud-inf/or-00-0728-t.htm.

 

[6] Anche in questo caso, si riporta la parte più importante del provvedimento collegiale, steso dal dott. Saracini:

“(…)  E' certamente vero quanto affermato dal giudice all'interno della ordinanza oggetto di gravame, cioè che si tratta di termini lessicalmente appartenenti al patrimonio semantico comune, nondimeno appare opportuno radicare il giudizio sulla base di una valutazione complessiva, dunque  non limitandosi ad una valutazione analitica dei termini considerati da sé soli (in questo senso Trib. Napoli. 8 maggio 1996), bensì muovendo dalla  considerazione che: 1) tali termini sono stati impiegati all'interno della rete internet al fine di costituire nomi di dominio; 2) il sito "bancoposta.it"  (apparentemente unico in funzione al momento del radicamento del procedimento cautelare) illustra ed offre prodotti e servizi di consulenza attinenti  al servizio bancoposta svolto istituzionalmente dalle poste italiane, ed ospita illustrazioni pubblicitarie estranee al servizio di gestione del risparmio  offerto dalle poste. Tali evidenze inducono a ritenere come anche da parte del resistente utilizzatore del sito tali termini siano stati intesi ed impiegati in quanto percepiti della generalità degli utenti come identificativi di prodotti e servizi forniti dalle poste italiane e di uso comune, e come tali muniti di certa ed elevata attitudine ad attirare coloro che navighino all'interno della rete Internet. Tali considerazioni - nella consapevolezza del principio  illustrato da Cass. pen. sez. I, 12.1.1984 n. 241, secondo la quale "l'uso di una parola nel suo corrente e normale significato linguistico non può  costituire violazione di un diritto di esclusiva, costituendo la normale utilizzazione del comune patrimonio linguistico un fatto naturale che non può  essere espropriato a vantaggio di situazioni esclusive" - inducono a ritenere che la attribuzione ai termini "bancoposta", "raccomandata" e "vaglia",  impiegati quali domain names, del carattere di segno distintivo di un servizio, non si ponga in contrasto con la disciplina di cui all'art. 18 n. 2 L.  marchi, finalizzata ad impedire che termini di uso comune siano monopolizzati da un unico operatore economico, non costituendo tali termini  denominazione generica di un prodotto suscettibile di essere fornito alla generalità del consociati da parte di un qualunque imprenditore.

  Le considerazioni sinora svolte illustrano come nel caso concreto al domain names in oggetto non possa essere attribuita natura di meri indirizzi sulla rete, atteso come gli stessi riguardino siti espressione di prodotti o servizi, e non riproducano la denominazione di persone fisiche o giuridiche o di enti riuscendo denominatori di siti che costituiscano recapito telematico o mera vetrina di tali soggetti.

  Appare quindi come l'impiego da parte del resistente Malavasi Daniele e della impresa individuale Discovogue dei termini in oggetto sia strumentale  a "catturare" nei propri siti gli utenti che intendano viceversa mettersi in contatto con siti delle poste italiane; ulteriormente si rileva come la pagina  "www.bancoposta.it" rechi illustrazioni circa la natura dal servizio offerto dalle poste italiane, così da non rendere immediatamente evidente la estraneità del sito alla amministrazione postale, ed inviti gli utenti interessati a chiarimenti ad inviare una e-mail ad un indirizzo estraneo alle poste  italiane (sul punto si richiama il principio illustrato in Cass. civ. sez. I, 13.4.1989 n. 1779, secondo il quale "al fine dell'accertamento della  confondibilità o meno di due marchi, l'esame del giudice di merito va compiuto non tanto in via analitica attraverso una particolareggiata disamina ed  una separata valutazione di ogni singolo elemento, quanto soprattutto in via unitaria e sintetica, mediante un apprezzamento che tenga conto di tutte  le caratteristiche salienti, compresi gli effetti visivi o grafici ed acustici o fonetici delle espressioni usate, in relazione al normale grado di percezione  delle persone alle quali il prodotto è destinato"). Certamente l'utente, una volta avvedutosi dell'errore, ha facoltà di disconnettersi dal sito e  rivolgersi altrove, nondimeno parte resistente avrà fruito di una massa di contratti nel proprio sito della quale altrimenti non avrebbe potuto giovarsi.

  Si ritiene quindi che l'impiego dei termini "bancoposta", "vaglia" e "raccomandata" effettuato da parte resistente si risolva nell'utilizzo di marchi privi del requisito di novità richiesto e definito dall'art. 17 L. marchi, ed importi la violazione della disciplina definita dall'art 11 L. marchi, laddove si fa divieto di usare marchi in modo da generare confusione sul mercato con altri marchi conosciuti come distintivi di prodotti e merci altrui.” Il testo completo del provvedimento è disponibile all’indirizzo https://fog.it/giurisprud-inf/or-00-0823-t.htm.

[7] Il dispositivo del provvedimento 8 settembre 2000 accoglitivo del reclamo era il seguente: “il Collegio (…) vieta al resistente Malavasi Daniele (…) l'impiego dei termini “bancoposta”, “vaglia” e  "raccomandata” quali domain names dei propri siti Internet, con immediata chiusura dei siti identificati dai domain names riportanti tali termini”.

[8] Provvedimento 14 febbraio 2001, estensore Fabbrini. Non è infrequente, nel settore dell’informatica, che i provvedimenti cautelari siano di difficile applicazione e che, di fatto, mettano in seria difficoltà chi voglia eseguirli. Nel caso di specie il provvedimento cautelare, oltre ad usare - quasi che fossero sinonimi - i termini di “dominio” e di “sito”, il vietare genericamente “l’utilizzo dei nomi di dominio” in mancanza di diversa specificazione, ha causato semplicemente la sospensione del dominio ma non la sua revoca, secondo le vigenti regole di naming. Ciò ha costretto il giudice investito della questione interpretativa ad un nuovo provvedimento di ben 7 pagine, che di fatto ha modificato quello preso dal collegio. Mentre quest’ultimo infatti era rivolto solamente al Malavasi (...vieta al Malavasi l’utilizzo dei nomi a dominio...) e quindi sarebbe dovuto essere da questi eseguito mediante richiesta di sospensione o di revoca alla Registration Authority (che di per sè non era neppure destinataria dell’inibitoria), il provvedimento “interpretativo” è stato rivolto direttamente alla Registration Authority, ordinandole “la revoca dei detti domain names in capo al resistente Malavasi Daniele in proprio e quale titolare dell’impresa Discovogue” e disponendo “la contestuale sospensione dell’assegnazione di tali nomi a dominio sino all’esito dei giudizio di merito”. Il testo completo del provvedimento è disponibile all’indirizzo https://fog.it/giurisprud-inf/or-01-0214-t.htm.

[9] Provvedimenti di rigetto 20 dicembre 2001 (disponibile all’indirizzo https://fog.it/giurisprud-inf/or-01-1220-t.htm) e 21 luglio 2003 (disponibile all’indirizzo https://fog.it/giurisprud-inf/or-03-0721-t.htm). In relazione a quest’ultimo, è curioso notare che il Malavasi lamentava la violazione del provvedimento di inibitoria da parte delle Poste italiane per il fatto che cercando di accedere ai domini in contestazione (irraggiungibili in quanto cancellati dal DNS della Registration Authority) attraverso il browser Microsoft Internet Explorer, il programma dava atto dell’inesistenza dei domini e trasferiva l’utente ad una pagina web di MSN – Microsoft Network Search, la quale suggeriva di visitare siti gestiti dalle (o correlati alle) Poste italiane.

[10] Per una completa e ragionata panoramica delle pronunce giurisprudenziali sul punto si rinvia a SIROTTI GAUDENZI, Manuale pratico dei marchi e brevetti, Sant’Arcangelo di Romagna, 2004, 222.

[11] Fra le tante, Trib. Salerno 23 febbraio 2003, in questa Rivista, 2003, 832; Trib. Bergamo 6 marzo 2003, ivi, 2003, 837; Trib. Napoli 8 gennaio 2002, ivi, 2002, 359, confermata da Trib. Napoli 19 febbraio 2002, ivi, 2002 362; Trib. Napoli 28 Dicembre 2001, ivi, 2002, 95; Trib. Reggio Emilia 30 maggio 2000, ivi, 2000, 668; Trib. Modena 23 maggio 2002, ivi, 2000, 665; Trib. Roma 9 marzo 2000, ivi, 2000, 360; Trib. Milano 7 marzo 2000, ivi, 2000, 494; Trib. Milano 3 febbraio 2000, ivi, 2000, 493; Trib. Genova 17 luglio 1999, ivi, 2000, 341; Trib. Genova 13 ottobre 1999, ivi, 2000, 346; Trib. Milano 10 giugno 1997, in Riv. dir. ind. 1998, II, 430.

[12] Fra gli altri si segnalano SAMMARCO, Il regime giuridico dei nomi a dominio, Milano 2002, 201 ss; VARI’, La natura giuridica del nome a dominio, Padova 2001, 39 ss; SAMMARCO, Aspetti problematici relativi al rapporto tra nome a dominio e marchio altrui, in questa Rivista, 2000, 675; CASSANO, In tema di domain name, ivi, 2000, 494; TOSI, Nomi di dominio e tutela dei segni distintivi in internet fra domain  grabbing, linking, framing e metatag, in Riv. Dir. ind. 2000, 177; D’ARRIGO, La contraffazione del marchio virtuale: il caso altavista, ivi, 2000, 349; TOSI, La tutela della proprietà industriale, in I problemi giuridici di internet, a cura di Tosi, Milano 1999, 175 ss; BALLARINO, Internet nel mondo della legge, Padova 1998, 196 ss.

[13] D.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, un cui commentario si trova in SCUFFI – FRANZOSI – FITTANTE, Il codice della proprietà industriale – commento per articoli coordinato con le disposizioni comunitarie e internazionali, Padova 2005.

[14] Si ricordano le risalenti Trib. Bari 24 luglio 1996, in Foro it. 1997, I, 2316; Trib. Firenze 29 giugno 2000, in questa Rivista, 2000, 672; ord. Trib. Firenze, sez. dist. di Empoli, 23 novembre 2000, ivi, 2001, 509, peraltro ribaltata in sede di reclamo da Trib. Firenze 28 maggio 2001, in Guida al diritto 2001, n. 37, 39. In dottrina si veda MAIETTA, Domain name: il pendolo della giurisprudenza fra domicilio elettronico e segno distintivo, in Corr. Giur. 2002, 1350.

[15] Si veda CASSANO, Libertà di registrazione del domain name e  marchi senza tutela; verso la negazione di un principio consolidato?, in Corr. Giur. 2001, 245; CASSANO, Una “giurisprudenza toscana” sui nomi a dominio?, in questa Rivista, 2001, 511. A favore della minoritaria corrente giurisprudenziale si è pronunciaTO invece TARIZZO, L’applicabilità della disciplina sui marchi a nomi di dominio: certezze e dubbi, ivi, 2000, 500.

[16] Di fatto il maintainer, coinvolto nel primo provvedimento cautelare richiesto dalle poste, non era stato poi convenuto da queste ultime né in sede di reclamo, né nel successivo giudizio di merito.

[17] Sulle modalità di registrazione del nome a dominio in Italia è ancora sostanzialmente valido quanto esposto da SAMMARCO, Assegnazione dei nomi a dominio Internet, interferenze con il marchio, domain grabbing e responsabilità del provider, in questa Rivista, 2000, 67.

[18] Trib. Napoli 26 Febbraio 2002, in questa Rivista, 2002, 1005, 1036, con nota contraria (sullo specifico punto) di SAMMARCO,  Illeciti contraffattori: responsabilità del provider, rischio di impresa e ruolo della Registration Authority, ivi, 1050, 1059.

[19] Alla fattispecie appaiono attagliarsi esattamente le considerazioni svolte, seppur valutando la responsabilità del provider, da Trib. Firenze 7 giugno 2001, in Guida al diritto 2001, n. 37, 41, 45, secondo cui “pretendendo da parte dei soggetti preposti alla registrazione dei nomi a dominio il previo controllo della non conflittualità con un marchio registrato “si finirebbe con l’addossare al provider il giudizio sulla liceità o meno della registrazione del nome a dominio e, dunque, tutta una serie di valutazioni (ad esempio, circa eventuali eccezioni di nullità del marchio, ecc.), che, sicuramente, non competono a tale soggetto; d’altra parte, come ampiamente osservato dalla dottrina, la conclusione è particolarmente adeguata al sistema italiano, considerato che nemmeno l’Ufficio Italiano Marchi e Brevetti è in grado di verificare tutte le priorità in materia di marchi registrati”.

[20] L’immagine utilizzata nella metafora è stata proposta da Enzo Fogliani nel corso della relazione al convegno Le responsabilità degli operatori  di Internet tenutosi a Udine il 6-7 maggio 2004.

[21] Si veda al riguardo SAMMARCO, Illeciti contraffattori: responsabilità del provider, rischio di impresa e ruolo della Registration Authority, in questa Rivista, 2002, 1050, 1059, il quale ritiene che “tale condotta non sembra potersi richiedere alla Registration Authority perché certamente onerosa e soprattutto non risolutiva nei casi di confondibilità tra le denominazioni poste a raffronto” ; BASSOLI, Domain name e tutela inibitoria, ivi, 2001, 522, 524. Contra, D’ARRIGO, op. cit.  358.

[22] Fra le tante si ricordano Trib. Milano 10 giugno 1997, in Foro it. 1998, I, 923; Trib. Macerata 2 dicembre 1998, in Dir. Ind. 1999, 35; Trib. Ivrea 19 luglio 2000, in Dir. Ind. 2001, 177; Trib. Genova 18 dicembre 2000, in questa Rivista, 2001, 521, con nota di BASSOLI, Domain name e tutela inibitoria, ivi, 522.

[23] E’ appena il caso di sottolineare che le decisioni nelle procedure di riassegnazione trovano invece valida base nell’autonomia contrattuale delle parti, essendo parte integrante delle regole di naming che per relationem costituiscono il contenuto pattizio del contratto sulla cui base il Registro assegna i  nomi a dominio. Inoltre, per espressa previsione delle regole di naming, le procedure si riassegnazione non hanno carattere giurisdizionale e consentono comunque alle parti il ricorso alla magistratura (artt. 16.2 e 16.3 del regolamento di assegnazione e gestione dei nomi a dominio sotto il ccTLD “it”, vers. 4.0, disponibile su https://www.crdd.it/norme/cr-regole-40.htm). Sulle procedure di riassegnazione dei nomi a domini si veda TURINI, op. cit.; sulle differenza fra procedure di riassegnazione ed arbitrato (pure previsto dalle regole di naming), si veda SOLDATI, Osservazioni in tema di arbitrato tradizionale e procedure di riassegnazione dei nomi a dominio, in Ciberspazio e diritto, 2002, 449.

[24] Conforme, sul punto, Tribunale Roma, 23 agosto 2000, in Riv. giur. trib. 2000, 348.

[25] Unico punto nel quale le regole di naming sono state censurate è quello in cui prevedano che la riassegnazione sia disposta solo a seguito di sentenza passata in giudicato e non semplicemente esecutiva.

[26] Sul precedente sistema oltre a FOGLIANI, op. cit., 795, si veda la ZUMERLE, Cenni sulla internet governance italiana e sul nuovo dominio europeo .eu, in Ciberspazio e diritto, 2001,417.

[27] Nel sistema attualmente vigente la formulazione delle regole di naming (oggi denominate Regolamento per la assegnazione e la gestione dei nomi a dominio sotto il ccTLD.it) è demandata alla “commissione per le regole” organo consultivo interno al Registro, che è subentrato nelle funzioni precedentemente svolte dal comitato esecutivo della Naming Authority. Il regolamento della commissione è disponibile all’indirizzo  https://www.nic.it/RA/CR/RegolamentoCommRegoleCR.pdf. Sulle modalità di funzionamento della commissione si veda FOGLIANI, Recenti sviluppi nell’Internet Governance italiana: la nuova commissione per le regole del registro del cc.TLD .it, in questa Rivista, 2004, 791.


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