TRIBUNALE
DI MODENA
GIUDICI:
PRES.
G. STANZANI
REL: M. CIFARELLI
PARTI:
POSTE
ITALIANE S.P.A.
(Avv.ti
Molè, Pini, Sandulli e Tavormina)
MALAVASI
(Avv.ti
Borelli e Gazzetti)
NAMING
AUTHORITY ITALIANA
(Avv.ti
Fogliani, Menchetti, Sammarco e Riguzzi)
CONSIGLIO
NAZIONALE DELLE RICERCHE
(Avvocatura
dello Stato)
Avendo
Daniele Malavasi registrato per Internet quali propri nomi a dominio
bancoposta.it, vaglia.it e raccomandata.it, Poste Italiane s.p.a. agiva
dinanzi
a questo Tribunale onde ottenere tutela
in via cautelare ante causam.
L’istanza veniva accolta in sede di
reclamo, ove si vietava a Daniele Malavasi l’impiego dei
termini in questione
quali domain
names dei propri
siti Internet, disponendosene l’immediata chiusura.
Con
atto di citazione notificato in data 9-10 ottobre 2000, Poste Italiane
s.p.a.
conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Modena Daniele Malavasi
– in
proprio e quale titolare della Discovogue – la Naming
Authority Italiana, la
Registration Authory Italiana ed il Consiglio Nazionale delle Ricerche
(tutte
parti già evocate in sede cautelare, ove era stata
ulteriormente citata la
Got.it, quale intermediaria del Daniele Malavasi nella registrazione
dei siti
in questione), rassegnando conclusioni sostanzialmente conformi a
quelle
riportate in epigrafe, tranne che per l’estensione a tutti i
convenuti della
condanna al risarcimento dei danni di cui al capo a) di dette
conclusioni, in
sede di p.c. ribadita soltanto nei confronti del Daniele Malavasi.
In
sintesi l’attrice, premesso di aver in corso la registrazione
del marchio
"bancoposta" e di avere in preuso nazionale i marchi
"vaglia" e "raccomandata", sosteneva che l’altrui
registrazione in Internet di tali locuzioni come propri nomi a dominio
costituisse sia contraffazione di marchio, sia concorrenza sleale sotto
tutti i
profili normativi, sia illecito ordinario.
Daniele
Malavasi, costituitosi in giudizio, rassegnava conclusioni
sostanzialmente
corrispondenti a quelle riportate in epigrafe - tranne quelle iniziali
relative
ad una presunta nullità della citazione, aggiunte in sede di
precisazione delle
conclusioni - deducendo, in sintesi, l’inidoneità
di tali parole ad essere
registrate quali marchi e l’assenza di un rapporto di
concorrenzialità.
Le
altre parti si costituivano in giudizio chiedendo il rigetto delle
domande
spiegate nei rispettivi confronti.
Comunicati
gli atti al P.M. – che non riteneva di intervenire in
giudizio - in relazione
alla riconvenzionale di nullità del marchio "bancoposta"
proposta da
Daniele Malavasi e risolte alcune questioni inerenti la cautela in
atto, di cui
è inutile dar conto in questa sede, il G.I. riteneva di
provocare l’immediata
decisione della causa senza alcun approfondimento istruttorio,
sicchè essa,
sulle conclusioni delle parti come in epigrafe trascritte, scaduti in
data 9 aprile
2004 i termini concessi ex art.190 cpc, veniva rimessa al collegio per
la
decisione.
MOTIVI
DELLA DECISIONE
1)
Non è superfluo precisare
che le parti convenute in causa sono, oltre alla Naming Authority
Italiana:
a)
Daniele
Malavasi. Nell’ordinamento giuridico italiano,
infatti, non esiste una soggettività giuridica
dell’impresa individuale scissa
da quella del suo titolare, che risulta pertanto unico soggetto
giuridico sia
in quanto persona, che in quanto imprenditore. Non ha senso, quindi,
differenziare
la qualità soggettiva di costui in relazione
all’uno od all’altro aspetto del
suo essere centro d’imputazione d’interessi
giuridici, né tantomeno sollevare
rilievi in rito che si fondano sull’esistenza di due distinte
identità
soggettive: Daniele Malavasi è in quanto tale parte unica
del processo, sia
(per citare i termini utilizzati in causa) in proprio, sia in quanto
titolare
dell’impresa individuale denominata Discovogue.
b)
il Consiglio
Nazionale delle Ricerche, essendo la Registration Authority Italiana
una
semplice articolazione interna delle attività ad esso
affidate, priva di
autonoma personalità giuridica.
2)
L’eccezione di
incompetenza territoriale del giudice adito, per essere competente il
Tribunale
di Bologna in virtù della regola del c.detto "foro erariale"
di cui
agli artt. 25 cpc e 6 R.D. n°1611/33, sollevata dal Daniele
Malavasi in ragione
della contemporanea evocazione in giudizio, da parte
dell’attrice, del
Consiglio Nazionale delle Ricerche, non merita accoglimento.
Se
è
vero, infatti, che il C.N.R. gode dell’assistenza legale
obbligatoria
dell’Avvocatura dello Stato (dapprima in forza del R.D.
n° 779/1940, poi ex
art.21 del D. L. L. n° 82/45, ed ora ex art. 15 co. 7 del D.
Lgs n°127 del 4
giugno 2003, che ha in gran parte sostituito il D. lgs. n° 19
del 30 gennaio
1999, a sua volta in gran parte sostitutivo del D. L. L. n°
82/45), è
altrettanto indiscusso che esso sia un ente pubblico non economico,
dotato di
formale personalità giuridica distinta da quella dello
stato, essendo tale
distinta soggettività, già affermata
nell’art. 1 del D. L. L. n° 82/45 e
comunque ritenuta nella vigenza di tale normativa dalla Cassazione (si
veda,
per tutte, Cass., sez. U., sent. n° 8533 del 21 agosto 1990),
testualmente
affermata sia nell’art. 1 del D. Lgs n° 19/99,
vigente all’epoca d’introduzione
della presente causa (ove il C.N.R. viene definito "ente nazionale di
ricerca" con "personalità giuridica di diritto pubblico",
dotata
di un "ordinamento autonomo") sia nell’art. 2 del recente D.
Lgs n°
127/03 (che lo definisce "ente pubblico nazionale", con
"personalità giuridica di diritto pubblico", che gode di
"autonomia scientifica, finanziaria, organizzativa, patrimoniale e
contabile" e si dota di un "ordinamento autonomo").
Ciò posto,
è pacifico in giurisprudenza che
"le particolari disposizioni in materia di foro erariale... si
applicano
alle sole controversie nelle quali sia parte
un’amministrazione dello
stato" e "non sono pertanto estensibili alle controversie nelle quali
siano parte altri enti che, pur rappresentati e difesi in giudizio
dall’Avvocatura, abbiano soggettività giuridica
formalmente distinta dallo
Stato" (così Cass., sez. I, sent. n° 7956 del 25
agosto 1997. Nei medesimi
sensi Cass., sez. I, sent. n° 6450 del 8 luglio 1994, Cass.,
sez. U., sent. n°
3573 del 25 marzo 1993 nonché, ancor prima, Cass.
nn° 4150/78, 4852/81, 6858/83
e 4080/85).
Tale
essendo il caso del C.N.R., va pertanto esclusa
l’applicazione, nei suoi
confronti, delle regole del foro erariale, con conseguente rigetto
dell’eccezione.
3)
Tutte le questioni riproposte dal Daniele Malavasi che riguardano la
cautela
concessa ante causam non vanno trattate, essendo
destinate ad essere
comunque assorbite e superate dalla decisione del merito da rendersi in
questa
sede.
4)
Got.it non è parte necessaria del presente giudizio di
merito. La sua mancata
evocazione in causa, pertanto, già in astratto
all’effetto d’inefficacia del
cautelare ante causam pronunciato nei suoi
confronti (in concreto,
peraltro, tale parte è stata evocata in detto procedimento,
ma non ha subito
alcuna pronuncia), non accoppia anche un’efficacia
invalidante della citazione,
come dedotto dal Daniele Malavasi.
5)
Non può seriamente mettersi in dubbio la legittimazione
attiva delle Poste
Italiane in ordine alle domande proposte nei confronti del Daniele
Malavasi per
aver nelle more del giudizio trasferito i servizi internet ad altra
società,
stante il chiaro disposto dell’art. 111 co. 1° c.p.c.
6)
Passando all’esame del merito, è il caso di
premettere che Internet è una rete
telematica mondiale, articolata in vari nodi nazionali e locali, cui i
singoli
utenti accedono attraverso la rete telefonica collegata al computer.
Per
rendersi accessibili agli altrui collegamenti, è necessario
individualizzare il
"sito" del proprio computer attraverso un codice di identificazione
(c.detto indirizzo IP, Internet Protocol) costituito da una data
combinazione
di gruppi di numeri divisi da punti. Per facilitare i collegamenti,
ciascuno di
tali indirizzi viene affiancato da uno (e uno solo) c.detto indirizzo
DNS
(Domain Name System), rappresentato da una combinazione di lettere in
grado di
formare parole di senso compiuto, che costituisce l’elemento
necessario e
sufficiente al singolo utente per realizzare la connessione con quel
particolare sito (provvedendo l’apposito software a
convertire automaticamente
l’indirizzo DNS nell’indirizzo IP, unico
riconoscibile dalle macchine).
Gli
indirizzi DNS si compongono di due parti. Il c.detto top
level domain
(TLD), che è composto da due o tre lettere poste
all’estrema destra, dopo un
punto, che identificano l’area tematica o geografica del
sito. I TLD esistono
in numero limitato per le aree tematiche (il più famoso
è .com , che designa le
attività commerciali), mentre molte aree geografiche hanno
il proprio TLD
identificativo (per l’Italia è .it). Il TLD
è la parte di indirizzo che non è
scelta dall’utente, ma gli viene assegnata al momento della
registrazione.
Il
c.detto second level domain si trova, invece, sulla sinistra, ed
è una
espressione alfabetica liberamente scelta dall’utente (entro
il limite tecnico
rappresentato dal numero dei caratteri, che non deve essere superiore a
21),
costituendo pertanto il vero momento identificativo del sito.
Tale
meccanismo è diventato uno standard generale, garantito da
un sistema di
registrazione dei nomi che, nato in America, si è poi
articolato nel mondo
attraverso la creazione di varie autorità di registrazione
locali, che adottano
procedure simili per l’assegnazione, definite da autonomi
organismi
collaterali. In Italia, il regolamento di registrazione è
stabilito dalla
Naming Authority italiana (Na), mentre la Registration Autorithy
italiana (Ra)
è l’organismo responsabile
dell’assegnazione dei nomi – tutti aventi il TLD
.it
- e della tenuta dei relativi registri. Il principio cardine
dell’assegnazione
dei DNS è la regola del "first came, first served",
in forza
del quale l’autorità assegna il nome al primo
utente che ne fa richiesta, senza
svolgere alcun preventivo controllo di interferenza con altrui diritti
di
privativa discendenti dalla legge.
Ciò
posto, è chiaro che compito del giudice non è
quello di arretrare di fronte ad
un fenomeno in continua espansione, retto da propri principi di
funzionamento e
con caratteristiche uniche e, fino a poco tempo fa, inimmaginabili (una
per
tutte: la delocalizzazione, per cui ogni "sito" risulta accessibile
da ogni parte del mondo); è necessario, al contrario,
occuparsi della sua
collocazione giuridica, utilizzando gli ordinari strumenti esegetici al
fine di
verificare ogni possibile interferenza con la legislazione interna di
riferimento che, nella specie, è in primo luogo quella
relativa alla privativa
ed alla concorrenza.
6.1)
In relazione alla legislazione di tutela dei marchi e dei segni
distintivi,
occorre quindi porsi l’astratto problema della catalogazione
del DNS; il che
significa chiedersi innanzitutto se esso costituisca in qualche modo un
segno
distintivo (assimilabile ad un marchio di fatto, ad una ditta di fatto,
ad una
insegna, o individuabile come segno (tipico), in quanto tale soggetto
all’altrui aggressione per violazione della privativa, ovvero
costituisca
qualcosa d’altro, estraneo all’applicazione della
disciplina qui in
considerazione - ci si riferisce, in particolare, a quella teoria che
individua
nel DNS semplicemente l’indirizzo del computer collegato alla
rete (vedi Trib.
Firenze, ord. 29 giugno 2000).
In
realtà, ove si consideri che l’elemento
qualificante del DNS – ovvero il second
level domain- viene ad essere arbitrariamente stabilito
dall’utente (ed ha
quindi ben poco in comune con l’indirizzo, che certo non
è oggetto di scelta),
non può seriamente dubitarsi dell’appartenenza del
domain name alla categoria
dei segni distintivi, di cui possiede tutte le caratteristiche
peculiari, vale
a dire la natura di rappresentazione grafica (nella specie
denominativa)
prescelta dal titolare allo scopo di far riconoscere la propria
attività
rispetto agli altri.
Che,
poi, esso debba ricondursi ad una piuttosto che ad altra categoria di
segni, al
fine che qui occupa, poco importa (questo giudice, sia detto per
inciso,
propende per l’assimilazione all’insegna,
perché svolge l’identica funzione di
contraddistinguere il luogo – virtuale - in cui
l’imprenditore offre i propri
prodotti o servizi al pubblico, consentendone al contempo il
reperimento e
l’individuazione rispetto ai concorrenti), poiché,
così classificato, comunque
il domain name non si sottrae al rispetto delle regole dettate in
materia, in
virtù del principio di unicità dei segni
distintivi.
6.2)
In rapporto alla disciplina della concorrenza, vengono necessariamente
in
rilievo le peculiarità proprie di internet, che determinano
le seguenti opzioni
intepretative:
a)
in primo luogo, il
rapporto di concorrenza va verificato non solo rispetto al segmento di
mercato
relativo ai prodotti e servizi offerti in via diretta dalle imprese
attraverso
la rete, ma anche rispetto allo specifico mercato della raccolta
pubblicitaria
proprio della rete. In effetti, è notorio che ciascun sito
internet, oltre ad
essere utilizzato per la promozione e la vendita dei prodotti e servizi
del
titolare, ha un’ontologica attitudine a veicolare
informazioni pubblicitarie di
terzi nei confronti dei visitatori del sito. Esiste, pertanto, su
internet, uno
specifico mercato, in cui la clientela è costituita da
imprese terze rispetto
al titolare del sito, disposte a pagare a costui un corrispettivo per
la
diffusione della propria pubblicità nei confronti dei
visitatori del sito, in
quanto produttrici di prodotti o servizi potenzialmente collocabili
presso
costoro; corrispettivo la cui entità è
notoriamente funzione del numero dei
c.detti "click" (cioè, delle operazioni svolte da ogni
utente
all’interno del sito -a partire da quella che consente
l’ingresso in esso, fino
a quella che determina l’uscita dal sito - attraverso
l’uso del
"mouse", che a tal fine vengono esattamente conteggiate, essendo
ciò
consentito dall’esistenza di software in grado di rilevarle
con precisione) e
quindi del numero dei visitatori. In tal senso, può dirsi
che ciascun sito
internet funziona anche come una televisione monotematica o un prodotto
editoriale di settore che vende spazi pubblicitari alle imprese che
annoverano
fra i propri potenziali clienti gli utenti della prima o i lettori
della
seconda, praticando prezzi proporzionati alla sua diffusione;
b)
ciò determina la necessità
di una verifica supplementare e peculiare del rapporto di concorrenza,
che può
esistere rispetto al mercato pubblicitario specifico – oltre
che in aggiunta -
anche in assenza di diretta concorrenza sui prodotti e servizi offerti.
Per
fare un esempio, fra un commerciante di automobili ed un editore di una
rivista
di storia dell’automobile non è ipotizzabile
alcuna concorrenza nel mercato
"reale"; sul mercato "virtuale", invece, entrambi si
rivolgerebbero ad una fascia d’utenza almeno parzialmente
coincidente e quindi
ad un identico mercato pubblicitario, e conseguentemente andrebbero
considerati
rispetto a questo concorrenti;
c)
con riferimento alle
specifiche ipotesi di concorrenza sleale, partendo da quella di cui
alla prima
ipotesi dell’art.2598 n° 1 c.c., la costante
affermazione giurisprudenziale,
secondo cui "la configurabilità della concorrenza
sleale ex art. 2598
n° 1 c.c. postula un ‘quid pluris’ rispetto
alla mera contraffazione del
marchio, consistente nel requisito della confondibilità, in
concreto, dei
prodotti, che non è invece necessario al fine dell'esercizio
dell'azione di
contraffazione, per il quale è sufficiente la mera
confondibilità tra i segni"
(così, ex multis, Cass., sez. I, sent.
n° 9617 del
25 settembre 1998), va senz’altro ribadita. Essa,
però,
rispetto alla concorrenza sul mercato della raccolta pubblicitaria di
internet,
si atteggia in maniera peculiare, poiché occorre considerare
che, come detto,
tale mercato è funzione della tipologia e del numero degli
utenti del sito, che
per lo più si determinano a visitarlo in base al contenuto
ipotizzabile in
rapporto al significato corrente del domain name e
vengono conteggiati
anche in base al semplice accesso alla pagina iniziale del sito, pur se
seguito
da immediato recesso. Ad esempio, se un utente di internet è
interessato ad
acquisire notizie su armi da sparo a lungo raggio e non conosce
direttamente il
nome del sito che gli possa offrire tali notizie, proverà ad
effettuare una
ricerca casuale, o affidandosi ad uno dei tanti motori di ricerca
esistenti in
rete, che svolgono la funzione di rinvenire i siti di cui si conoscono
parti
del DNS, digitando ad esempio la parola "fucili", o – se
appena un
po’ più esperto - digitando direttamente tale
parola quale DNS, seguita da un
punto e da uno dei vari TLD utilizzabili - .it, .com, etc. In entrambi
i casi
troverà un sito denominato "fucili.it" ove, per il solo
fatto del
collegamento, diventerà un contatto spendibile sul mercato
pubblicitario dal
titolare del sito - anche se, nella specie, costui fosse un
imprenditore di
nome Fucili, che commercializzi tutt’altro genere di
prodotti. Analogamente – e
l’esempio è più pertinente - una
persona interessata all’acquisto di
un’automobile potrà, nella sua ricerca casuale,
imbattersi in siti in cui
effettivamente si commercializzano veicoli, ma anche in altri che si
occupano
di storia dell’automobile, ovvero che offrono la funzione di
ricerca di siti in
materia di automobili, etc., tutti in concorrenza fra loro rispetto al
mercato
pubblicitario informatico indirizzato all’utenza interessata
alle automobili,
cui praticano prezzi in ragione dei contatti ricevuti.
E’
evidente, pertanto, che
rispetto al mercato in questione, la concreta confondibilità
richiesta
dall’art. 2598 n° 1 prima parte c.c. può
determinarsi per la sola esistenza del
sito identificato con il nome di dominio, a prescindere dal fatto che
nel suo
contenuto si riportino specificazioni atte a differenziare senza dubbio
la
propria offerta informatica rispetto a quella del concorrente,
poiché il segno
identificativo del sito – cioè il suo domain
name - ha già in sè il
potere di attrazione dell’utenza in funzione della quale le
risorse
pubblicitarie vengono destinate. Rispetto a tale mercato, in altre
parole, il
sito ha funzione di contenitore del prodotto, e non
v’è dubbio che anche nel
mercato "reale" l’identità del contenitore, e
quindi del segno che
esso incarna o dei segni che su di esso sono riprodotti, rende concreto
il
rischio confusorio anche in presenza di una diversificazione, anche
notevole,
dei prodotti che in essi siano contenuti, ma che non siano –
come il contenuto
del sito - immediatamente percepibili dal potenziale acquirente prima
ed a prescindere
dal contenitore;
d)
una volta determinato come
sopra l’ambito di operatività dell’art.
2598 n° 1 prima parte c.c., in
relazione alla mera registrazione di un nome a dominio resta ben poco
spazio
operativo alle altre ipotesi legali di concorrenza sleale.
Poiché, infatti, il domain
name va ascritto alla categoria dei segni distintivi, ove
esso non
interferisca con l’ambito di tutela degli altrui segni deve
escludersi in
radice la possibilità che con esso possa realizzarsi una
delle altre ipotesi di
concorrenza sleale disciplinate dalla legge (salva la marginale ipotesi
di un domain
name in sè denigratorio, che cioè
esprima un significato di discredito del
concorrente, come potrebbe essere un sito denominato
posteitalianeinefficienti.it), che tutte presuppongono
l’adozione di mezzi od
il compimento di atti diversi ed ulteriori rispetto
all’appropriazione degli
altrui segni; ipotesi (quali la concorrenza confusoria realizzata con
"qualsiasi altro mezzo", l’appropriazione di pregi, la
violazione dei
doveri di correttezza professionale, ed anche l’imitazione
servile, ove si
consideri il sito quale prodotto o servizio offerto al mercato della
pubblicità
informatica) ordinariamente realizzabili anche in internet attraverso
uno
specifico contenuto del sito, ma non attraverso la semplice adozione di
un
determinato nome di dominio.
6.3)
Resta infine da chiarire
che l’attività di c.detto cybersquatting
– cioè la registrazione in proprio di domain
names potenzialmente oggetto dell’altrui interesse,
al solo fine di
rivendita all’interessato - allo stato della attuale
legislazione italiana, o
costituisce condotta interferente con l’altrui privativa in
materia di nomi o
segni distintivi, ex l.m., ed allora è in detti ambiti che
va sanzionata; o non
interferisce con altrui segni proteggibili, ed allora deve considerarsi
lecita,
posto che:
-
per
un verso, essa non può - in sé - sanzionarsi ex
art.
2598 c.c., non potendo già in astratto considerarsi in
rapporto di concorrenza
chi svolga esclusivamente l’attività (da
considerarsi ovviamente
imprenditoriale) di rivendita di nomi a dominio rispetto a chi eserciti
altra
attività, pur se potenzialmente incrementabile attraverso
l’uso della rete
informatica e, in particolare, di un sito caratterizzato da quel domain
name
oggetto dell’altrui registrazione;
-
per
altro verso, essa neppure può ricondursi ad un caso di
ordinario illecito aquiliano, ex art. 2043 c.c., in quanto,
nell’attuale
assenza di norme di legge che ritengano in sè illecita detta
condotta, tale
altrui registrazione deve ritenersi consentita, a nulla rilevando il
divieto a
tal fine previsto nelle regole di naming, che non hanno attitudine a
qualificarla quale illecito sul piano dell’ordinamento
generale.
7)
Fatte queste necessarie
premesse, occorre partitamente occuparsi delle varie domande proposte
in causa.
8)
Azione di contraffazione e
riconvenzionale di nullità del marchio.
La
domanda riconvenzionale di nullità è stata
espressamente proposta nei soli
confronti del marchio "bancoposta"; ma anche l’azione di
contraffazione ai sensi del R.D. n°929/42 (c.detta legge
marchi, o l.m.) è in
astratto concepibile soltanto rispetto a tale segno, che è
l’unico per cui
Poste Italiane s.p.a. ha richiesto la formale registrazione del
marchio,
essendo pacifico che i marchi di fatto – quali sarebbero,
secondo
prospettazione, "vaglia" e "raccomandata"- non godono della
tutela speciale della l.m., ma soltanto di quella generale di cui
all’art. 2598
n°1 c.c.
In
realtà, non risulta in causa che per tale segno sia stata
rilasciata la
registrazione richiesta con la domanda del 1998: non solo non
è stata infatti
offerta alcuna prova in proposito, ma le parti, fin nelle difese
finali, hanno
continuato a sviluppare le proprie contrapposte argomentazioni rispetto
ad una
fattispecie di marchio in corso di registrazione.
Stando
così le cose, entrambe tali domande vanno dichiarate
improcedibili.
Invero,
con riferimento all’azione di contraffazione, se dal coacervo
degli artt. 56,
61 e 63 l.m. si comprende che, sul piano processuale,
l’azione di
contraffazione è proponibile dal titolare di marchio in
corso di registrazione,
è per altro verso evidente che, sul piano sostanziale, tale
normativa
conferisce il diritto di esclusiva tutelabile solo a seguito della
registrazione, sia pure con effetto ex tunc dalla
domanda (artt. 2 e 4
l.m.). La registrazione, pertanto, deve considerarsi condizione
dell’azione di
contraffazione e, in quanto tale, deve sussistere al momento della
decisione, a
pena di improcedibilità della domanda. Né
è possibile disporre la sospensione
del presente processo, ex art. 295 c.p.c., in attesa del rilascio della
registrazione, poiché tale norma – sia
nell’originaria formulazione, che a
maggior ragione nell’attuale, introdotta dall’art.
35 della legge n° 353/90 a partire
dal 1 gennaio 1993 - consente la sospensione soltanto in caso di
pregiudizialità derivante da giudizio (anche
amministrativo), essendo invece
escluso il ricorso a tale potere in rapporto alla pendenza di un
procedimento
amministrativo non giurisdizionale, qual è quello di
rilascio della
registrazione del marchio (giurisprudenza pacifica: vedi, ex
multis,
Cass., sez. lav., sent. n° 5093 del 19 agosto 1986, n°
8536 del 19 novembre
1987 e n° 278 del 20 aprile 1990; sez. I, sent. n° 466
del 26 gennaio 1990;
sez. II, sent. n° 15115 del 22 novembre 2000).
Analogamente,
è chiaro che l’azione di nullità, del
pari proponibile contro un marchio in
attesa di registrazione, stante il chiaro e generale disposto
dell’art. 56
l.m., è a sua volta condizionata nella
procedibilità al sopravvenuto rilascio
della registrazione medesima al momento della decisione.
9)
Azione di concorrenza
sleale
Tale
domanda è stata proposta dall’attrice in relazione
a tutti e tre i segni in
questione, e sotto ogni profilo contemplato dall’art. 2598
c.c..
9.1)
In diritto, occorre
premettere che "in tema di concorrenza sleale, presupposto
indefettibile della fattispecie di illecito prevista dall'art. 2598
c.c. è la
sussistenza di una effettiva situazione concorrenziale tra soggetti
economici,
il cui obiettivo consiste nella conquista di una maggiore clientela a
danno del
concorrente. Ne consegue che la comunanza di clientela - data non
già dalla
identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti delle due
imprese, bensì
dall'insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di
mercato, e,
pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti che quel bisogno sono idonei
a
soddisfare - è elemento costitutivo di detta fattispecie, la
cui assenza
impedisce ogni concorrenza…… Peraltro, la
sussistenza della predetta comunanza
di clientela va verificato anche in una prospettiva potenziale,
dovendosi, al
riguardo, esaminare se l'attività di cui si tratta,
considerata nella sua
naturale dinamicità, consenta di configurare, quale esito di
mercato fisiologico
e prevedibile, sul piano temporale e geografico, e, quindi, su quello
merceologico, l'offerta dei medesimi prodotti, ovvero di prodotti
affini o
succedanei rispetto a quelli attualmente offerti dal soggetto che
lamenta la
concorrenza sleale" (giurisprudenza pacifica: così
Cass., sez. I,
sent. n°1617 del 14 febbraio 2000).
9.2)
Ciò premesso, Poste
Italiane e Daniele Malavasi , anche se svolgono attività
primarie del tutto
divergenti, vanno considerati in rapporto di concorrenza rispetto allo
specifico mercato della raccolta della pubblicità su
internet.
Se,
infatti, pare evidente che il Daniele Malavasi ha registrato i nomi a
dominio
per cui è causa allo scopo principale di rivenderli a Poste
Italiane (risulta
in atti che egli ha infatti registrato vari domini oggetto di
potenziale
interesse di terzi, pubblicando sul suo sito www.clic.it una
fantomatica
"borsa top-domini" con i prezzi di rivendita - vedi doc. 20 di parte
attrice-, e quindi è agevole individuare nella rivendita dei
siti il suo primario
interesse commerciale), o quantomeno di negoziare con essa un rapporto
di
collaborazione informatica, muovendo dalla posizione di forza derivante
dalla
registrazione dei siti in questione (si veda la lettera 10 maggio 2000
inviata
dal Daniele Malavasi alle Poste Italiane e da questa prodotta quale
doc.12 del
fascicolo cautelare), tuttavia risulta che lo stesso ha fin
dall’inizio
indirizzato il sito "bancoposta.it" allo svolgimento di
attività di
ausilio e consulenza nell’utilizzo del servizio bancoposta,
invitando gli
utenti a richiedergli informazioni all’indirizzo e-mail
info@bancoposta.it
(vedi pagina dimostrativa, prodotta da entrambe le parti). Risultando
inoltre
che analoga operazione il Daniele Malavasi ha svolto in relazione al
sito
bonifico.it (vedi doc. 22 di parte attrice), è agevole
ritenere che costui,
tramontata l’ipotesi di accordi con le Poste ed in assenza
della sua reazione
giudiziaria, avrebbe sviluppato l’attività
preannunciata e realizzato analoghe
operazioni per gli altri siti vaglia.it e raccomandata.it, oggetto di
sospensione cautelare nella fase pre-dimostrativa – in cui la
pagina iniziale
riporta solo l’indicazione "attivazione imminente", unita al
nome del
suo titolare (v. doc. 9 e 10 di parte attrice).
Tanto
basta per ritenere già realizzata la particolare specie di
concorrenza di cui
si è parlato in precedenza. Dovendo infatti, il rapporto di
concorrenza
valutarsi a livello potenziale, "in relazione ad una possibile
estensione o espansione nel futuro dell'attività
imprenditoriale, purché in
termini di rilevante probabilità", tenendo conto
anche delle "attività
preparatorie all'esercizio dell'impresa, quando si pongano in essere
fatti
diretti a dare inizio all'attività produttiva, costituenti
manifestazione di
attività imprenditoriale in fase organizzativa"
(così Cass., sez. I,
sent. n° 10728 del 15 dicembre 1994), è evidente la
ricorrenza di tale rapporto
nella specie, stante il probabile futuro sviluppo dei siti in questione
da
parte del Daniele Malavasi in termini di offerta di ausilio e
consulenza in
tema di servizi di bancoposta, vaglia e raccomandata, cui va assegnata
una
chiara attitudine all’intercettazione dell’utenza
interessata a detti servizi
e, quindi, di quel segmento del mercato intenzionato a pubblicizzare su
internet i propri prodotti e servizi presso tale tipologia di utenza,
evidentemente condivisa con Poste Italiane. Tali siti, in prospettiva,
si
rivolgono dunque allo stesso mercato pubblicitario interessato ai
prodotti
informatici dell’attrice e, quindi, il rapporto di
concorrenza sussiste.
9.3)
Occorre pertanto passare
all’analisi delle singole fattispecie di concorrenza sleale
denunciate, a
partire da quella confusoria per interferenza fra segni distintivi, di
cui
all’art. 2598 n° 1 c.c., che va riguardata non
soltanto in rapporto a
"vaglia" e "raccomandata", espressamente dedotti in causa
quali marchi di fatto in preuso nazionale, ma anche in rapporto a
"bancoposta", per cui è stata invece formalmente chiesta
tutela -
anche ex art. 2598 c.c. - quale marchio assimilato
a quello registrato,
sulla scorta di una prospettazione fattuale che invece (in attuazione
del
principio processuale secondo cui spetta al giudice il compito di
qualificare
correttamente la fattispecie sottoposta al suo esame) ne importa la
riqualificazione
giuridica negli identici termini di marchio non registrato in preuso
nazionale.
A
tal
proposito, premesso che non è qui in discussione il fatto
che Poste Italiane (e
prima ancora i suoi danti causa) ha effettivamente preusato i tre
citati segni
denominativi a livello nazionale, occorre considerare che il marchio di
fatto
può ricevere la suddetta tutela - ove ricorrano gli
ulteriori presupposti di
legge e, segnatamente, il rischio confusorio - soltanto ove esso goda
di una
astratta attitudine alla registrazione e, quindi, possieda tutti i
requisiti a
tal fine richiesti dalla legge, primo fra tutti la capacità
distintiva (si
vedano, ex multis, Cass., sez. I, sentt. n°
5462 del 20 ottobre 1982, n°
3224 del 1 aprile 1994 e n° 91 del 8 gennaio 1998): non a caso,
infatti, l’art.
2598 c.c. parla di segni "distintivi", mentre gli artt. 2569 e 2571
c.c., così come l’art. 9 l.m., parlano di "marchi
non registrati",
con ciò chiaramente riferendosi a segni registrabili quali
marchi.
Nell’indagine
che qui occupa, occorre dunque verificare se i segni per cui si chiede
tutela
siano astrattamente registrabili quali marchi; il che significa
stabilire se
essi non ricadano nei divieti di legge e in particolare - per quello
che qui
interessa - nell’art. 18 l.m., secondo cui "non possono
costituire oggetto
di registrazione come marchio d'impresa…..b) i segni
costituiti esclusivamente
dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni
descrittive che ad essi si riferiscono…".
9.3.1)
Il segno denominativo
"bancoposta" possiede tale astratta attitudine alla registrazione
quale marchio.
In
effetti, tale locuzione è stata creata dal legislatore
(limitando la ricerca
storica a partire dal secondo dopoguerra, essa si rinviene
già nell’art. 17 del
DPR n° 542 del 1953, e viene poi via via utilizzata in varie
leggi) per
definire l’insieme dei servizi di natura bancaria e
parabancaria offerti
dall’Amministrazione delle Poste e poi dai suoi successori
– dapprima Ente
Poste, ed ora Poste Italiane s.p.a. In particolare, l’art.
100 del codice
Postale adottato col DPR n°156/73, intitolato "servizi di
bancoposta"
– che apre il libro terzo interamente dedicato alle regole di
tali servizi –
raggruppava sotto tale locuzione unitaria le attività di
emissione e pagamento
dei vaglia, riscossione dei crediti, conti correnti, libretti di
risparmio e
buoni postali fruttiferi, chiarendo che a detti servizi si applicavano
le
disposizioni dell’art. 27 co. 2°, destinate ai
servizi accessori
dell’Amministrazione Postale, ovvero ai servizi diversi da
raccolta, trasporto
e distribuzione di corrispondenza e pacchi. Tali servizi accessori di
natura
bancaria sono rimasti poi estranei all’applicazione del D.
Lgs. n° 261/99, che
in attuazione della direttiva 97/67/CE e della legge delega n°
448/98 ha
definito il concetto di servizio postale universale (che comprende
tutta
l’attività di raccolta, trasporto, smistamento e
distribuzione di invii postali
– cioè corrispondenza, libri, cataloghi, giornali,
periodici e merci prive di
valore commerciale - fino a 2 kg e pacchi fino a 20 kg,
nonché i servizi
relativi agli invii raccomandati od assicurati) - introducendo tra
l’altro i
principi della concorrenza, diacronica in relazione al servizio postale
universale (che resta affidato ad un solo fornitore per tutto il
territorio
nazionale – che, in sede di prima attuazione, è
Poste Italiane s.p.a., per non
oltre 15 anni-, che però non sarà in futuro
necessariamente quello attuale), e
sincronica in relazione ai servizi non rientranti nel servizio
universale – che
possono essere offerti da chi riceva l’apposita
autorizzazione generale del
Ministero delle comunicazioni - ed ai singoli servizi del servizio
universale
non riservati al suo fornitore – che possono essere offerti
anche da chi
ottenga il rilascio di apposita licenza individuale.
Detti
servizi, invece, in attuazione della medesima delega, sono stati
nuovamente
regolamentati con il D.P.R. n° 144/01, ove risulta ancor meglio
esplicitato che
con la locuzione "bancoposta" si designa quell’insieme di
attività (comprendente
la raccolta di risparmio tra il pubblico come definita
dall’art.11 co.1° del
T.U. bancario, la raccolta del risparmio postale, i servizi a pagamento
di cui
all’art. 1 co.2° lett. f) nn°4 e 5 del T.U.
bancario, il servizio di
intermediazione in cambi, la promozione ed il collocamento presso il
pubblico
di finanziamenti concessi da banche ed intermediari finanziari
abilitati ed i
servizi d’investimento ed accessori previsti
dall’art. 1 co.5° lett. b, c
ed e nonché dall’art. 1,
co.6°, lett. a, b, d,
e,
f, e g del T.U. finanza) svolte
esclusivamente da Poste Italiane
s.p.a., senza necessità di iscrizione in albi ed elenchi,
rispetto alle quali
Poste è equiparata alle banche italiane, anche ai fini
dell’applicazione delle
norme dei TT.UU. bancario e della finanza.
In
definitiva, la locuzione "bancoposta" non costituisce denominazione
generica di un servizio, ma rappresenta il nome specifico di
quell’insieme di
servizi di natura bancaria svolti dapprima
dall’Amministrazione postale ed ora
da Poste Italiane s.p.a., del tutto estranei al processo di
liberalizzazione
che interessa i servizi postali primari.
Non
v’è pertanto alcun conflitto con il divieto posto
dall’art. 18 l.m., che è
volto ad impedire l’appropriazione individuale quale marchio
della
denominazione generica di un prodotto o di un servizio al chiaro scopo
di
permettere ad ogni concorrente di utilizzarla per definire quel
prodotto e quel
servizio, laddove nella specie, invece, la denominazione "bancoposta"
individua (da sempre) un complesso di attività
caratterizzate oggettivamente
dalla natura bancaria e soggettivamente dal fatto di poter essere
svolte
esclusivamente (dall’Amministrazione postale ed ora) da Poste
Italiane s.p.a.,
ed è quindi per questa ragione segno denominativo dotato di
altissima capacità
distintiva.
Precisato
che nella fattispecie che qui occupa è superfluo qualificare
tale segno come
"forte" o "debole", visto che il conflitto è in essere con
un segno denominativo assolutamente identico, ovvero con il second
level
domain "bancoposta" (è pacifico, infatti, che
anche i marchi
deboli ricevono tutela contro l’usurpazione, ovvero contro la
ripetizione
pedissequa del segno), e chiarito che il preuso proprio non distrugge
la novità
del segno ai fini della sua registrazione quale marchio, come
espressamente
detto dall’art. 17 1b ultima parte l.m.,
deve pertanto concludersi nel
senso della astratta registrabilità quale marchio del segno
denominativo
"bancoposta" da parte dell’attrice e, quindi, della sua
tutelabilità
ex art. 2598 n° 1 prima parte c.c. quale marchio di fatto in
preuso nazionale.
Tale
tutela va in concreto effettivamente apprestata, poiché, per
quanto detto al
precedente punto 6.2.c), il rischio confusorio ulteriormente richiesto
da tale
norma si determina per effetto della mera esistenza
dell’altrui sito
identificato con il nome di dominio interferente con il segno da
proteggere, in
sè idoneo ad intercettare gli utenti interessati a tale
servizio e quindi a
sviare la pubblicità ad essi destinata.
9.3.2)
La locuzione
"raccomandata" non può invece ritenersi munita di astratta
attitudine
alla registrazione quale marchio.
Tale
parola, infatti, che è polisenso, nel suo significato
tecnico costituisce da
sempre la denominazione generica di un prodotto postale – e
per traslato del
relativo servizio - costituito da corrispondenza che, dietro pagamento
di oneri
aggiuntivi, viene garantita forfettariamente dai rischi di smarrimento
e per la
quale il mittente riceve prova documentale della consegna
all’ufficio postale
e, a richiesta, dell’effettivo inoltro al destinatario.
Detto
prodotto, o servizio, è stato con il D. Lgs n°
261/99 – ove viene chiamato
"invio raccomandato" - ricompreso nel servizio universale ma, nella
parte non oggetto della riserva di cui all’art. 4 co.
1° e 5°, liberalizzato,
nei limiti dell’art.5.
In
definitiva, "raccomandata" costituisce la denominazione generica di
un prodotto, e del relativo servizio, che può essere oggi in
parte offerto al
pubblico anche da soggetti diversi da Poste Italiane. La sua
registrabilità
quale marchio – e quindi la sua tutelabilità quale
marchio di fatto - va
pertanto esclusa in base al disposto dell’art. 18 l.m., che
come detto inibisce
l’appropriazione individuale di tali denominazioni generiche,
laddove esse
siano patrimonio comune degli operatori commerciali in regime di
concorrenza.
Né
pare possibile assegnare comunque al marchio di fatto
capacità distintiva – e,
quindi, attitudine alla registrazione - in base al c.detto secondary
meaning
(come consentito dal chiaro disposto dell’art.19 l.m.),
poiché il fatto – che
si può dare per ammesso - che nell’opinione
pubblica il termine
"raccomandata" abbia nel tempo finito per identificare il prodotto ed
il relativo servizio offerto dall’Amministrazione postale e
dai suoi aventi
causa, a cagione del regime di monopolio esistente, risulta ormai
vanificato
dalla liberalizzazione introdotta dalla legge, che ha determinato la
perdita
della capacità distintiva acquisita sul campo dal segno e la
sua retrocessione
alla primigenia natura di denominazione generica di un prodotto o
servizio
soggetto a concorrenza – in altre parole,
all’acquisto di capacità distintiva
per effetto del secondary meaning indotto dal
legislatore monopolista, è
seguita la perdita di tale nuova capacità per
volgarizzazione determinata dal
legislatore liberista.
Atteso
ciò, l’attrice non può ricevere tutela
invocando la locuzione "raccomandata"
quale proprio segno distintivo.
9.3.3)
La locuzione
"vaglia" ancor meno può considerarsi segno distintivo
tutelabile,
perché esso costituisce la denominazione generica di ogni
titolo di credito
destinato a trasferire fondi da un luogo ad un altro, laddove i
prodotti
offerti da Poste Italiane ascrivibili a tale categoria vengono da
sempre
definiti con la locuzione composta "vaglia postali" - così
era
intitolato il capo I del libro Terzo del codice del 1973, tale era la
dizione
contenuta nel titolo dell’art. 104 di tale codice, che li
definiva, e tale è la
locuzione ora utilizzata negli artt.5 e 6 del D.P.R. n° 144/01
- in modo da
contraddistinguerli dalle altre specie di vaglia – bancari
(art. 87 ss. legge
ass.) e cambiari (art. 100 ss. legge camb.).
In
tal caso, dunque, ex art.18 l.m. la tutela va ancor più
radicalmente esclusa,
non essendo certo consentito a chi offra un prodotto di ottenere
protezione
sulla denominazione del genere cui esso appartiene quale specie.
9.4)
Per quanto detto al
precedente punto 6.2), è escluso che possano rinvenirsi,
nella semplice
adozione delle parole "raccomandata" e "vaglia" quali nomi
di dominio, profili di concorrenza sleale diversi da quello
testè vagliato, una
volta negato qualsiasi diritto di privativa dell’attrice su
tali locuzioni; e
poiché i siti muniti di tali domain names
non sono mai stati sviluppati
dal Daniele Malavasi, né è possibile ipotizzarne
un probabile futuro sviluppo
in termini confliggenti con le altre regole della corretta concorrenza,
va
esclusa, rispetto ad essi, ogni tutela richiesta da Poste Italiane
s.p.a. ex
artt. 2598 c.c..
10)
azione ex art. 2043 c.c..
L’attrice,
infine, ha dedotto che l’altrui registrazione dei tre siti in
questione sarebbe
comunque ascrivibile ad ordinario illecito aquiliano, siccome
effettuato in
violazione di vari divieti normativi.
Orbene,
premesso che tale domanda in relazione al sito
“bancoposta.it” è da ritenersi
assorbita dall’accoglimento della domanda ex art. 2598 c.c.,
rispetto alla
quale non presenta alcun profilo di autonomia teleologica, in relazione
ai siti
“raccomandata.it” e
“vaglia.it”, richiamato quanto detto al precedente
punto
6.3) in ordine alla liceità
dell’attività di cybersquatting in sé
considerata,
l’assunto non può essere affatto condiviso, in
quanto:
-
l’adozione di tali
locuzioni quali domain names non può
dirsi in conflitto con le normative
in materia bancaria e di intermediazione finanziaria, che riservano a
determinate categorie le attività in questione, certo non
svolte dal Daniele
Malavasi. In particolare, tale adozione non confligge con il disposto
dell’art.133 del T.U. bancario, poiché
né "vaglia" – che è termine
generico relativo a vari titoli di credito, non necessariamente bancari
- né
tantomeno "raccomandata" – che nulla ha a che fare con
l’attività
bancaria - possono considerarsi "locuzioni idonee a trarre in inganno
sulla legittimazione allo svolgimento
dell’attività bancaria";
-
come detto, il servizio
degli invii raccomandati non è più riservato a
Poste Italiane. In ogni caso, l’apertura
del sito raccomandata.it da parte del Daniele Malavasi non
può dirsi
necessariamente propedeutica allo svolgimento del relativo servizio;
-
il generico richiamo alla
legge sulla privacy risulta francamente incomprensibile;
-
esclusa la valenza
distintiva dei segni denominativi in questione, non
v’è spazio per la
fattispecie dell’art. 473 c.p., né può
rinvenirsi nell’adozione di essi quali domain
names un uso di mezzi fraudolenti ex art. 513 c.p.;
-
anche il richiamo alle
norme in materia di pubblicità ingannevole è
fuori luogo, posto che i nomi di
dominio non costituiscono messaggi pubblicitari, nel senso definito
dall’art.2
del D. Lgs. n° 74/92;
-
infine, nell’altrui
appropriazione di tali nomi di dominio non è rinvenibile
alcuna diffamazione in
danno dell’attrice, né tantomeno attitudine a
lederne nome, immagine o
identità.
11)
In definitiva, la domanda
principale proposta dall’attrice va accolta soltanto in
relazione al domain
name "bancoposta.it", individuandosi nella registrazione del
relativo
sito da parte del Daniele Malavasi un caso di concorrenza sleale
confusoria ex
art. 2598 n° 1 prima parte c.c..
12)
Pronunce conseguenti
a)
Il
rigetto di ogni domanda relativa ai siti "raccomandata.it" e
"vaglia.it" determina l’immediata perdita
d’efficacia del
provvedimento cautelare ante causam ad essi
riferito, che va qui
dichiarato, ex art. 669 novies co.3°
c.p.c.. Conseguentemente, la
Registration Authority (ora chiamata "Registro del ccTLD it", o
semplicemente "Registro") dovrà provvedere
all’immediato ripristino
dell’assegnazione al Daniele Malavasi –come del
resto previsto dalla regola di
naming 12.1.
b)
In
relazione a detto rigetto, non è possibile accogliere la
riconvenzionale
risarcitoria avanzata dal Daniele Malavasi - anche ex art. 96 c.p.c.-,
posto
che costui ne ha richiesto la liquidazione equitativa (e non anche la
pronuncia
generica) senza offrire alcun elemento su cui fondare la relativa
condanna,
come avrebbe dovuto (si veda, ex multis, la recente Cass., sez. II,
sent. n°
2874 del 26 febbraio 2003, secondo cui "il potere del giudice
di
liquidare il danno con valutazione equitativa presuppone che la parte
interessata fornisca non solo la prova dell'esistenza ontologica del
danno e
dell'impossibilità di provarlo nel suo preciso ammontare, ma
anche gli elementi
probatori ed i dati di fatto che ne consentano la determinazione").
c)
L’accoglimento
della domanda ex art. 2598 c.c. in relazione al sito bancoposta.it
impone, in
primo luogo, ex art. 2599 c.c., di inibire a Daniele Malavasi la
continuazione
dell’attività illecita. Gli va quindi vietato ogni
ulteriore utilizzo della
locuzione "bancoposta" per contraddistinguere proprie
attività
commerciali, ivi compreso l’uso di tale locuzione quale parte
denominativa di
siti internet.
d)
In secondo luogo, quale
opportuno
provvedimento ex art. 2599 c.c., va disposta la revoca della
registrazione del
nome a dominio suddetto in capo al Daniele Malavasi, mediante ordine al
Registro di rimuovere dal Registro dei Nomi Assegnati (RNA)
l’assegnazione del
nome a dominio "bancoposta.it" in favore del Daniele Malavasi.
e)
Non
può invece giudizialmente procedersi alla richiesta
riassegnazione all’attrice
di tale domain name, poiché una
pronuncia del genere, escludendo ogni
altro dal concorso nell’assegnazione, presupporrebbe
l’affermazione in causa
del diritto assoluto al segno distintivo, che è inibita
dalla attuale mancanza
della registrazione del marchio, e non può quindi rendersi
quale statuizione
conseguente a pronuncia resa ex art.2598 c.c., che, a differenza di
quelle
adottabili ex l.m., non ha efficacia reale erga omnes,
ma personale
contro il concorrente sleale. Ne consegue che tale nome a dominio
dovrà
riassegnarsi secondo le regole interne di naming (fermo il divieto del
Daniele
Malavasi di concorrere a detta riassegnazione, per effetto della
disposta
inibitoria), che peraltro prevedono in tal caso una procedura di favore
nei
confronti di chi abbia ricevuto tutela in sede giudiziaria (in sintesi,
il
Registro invita entro dieci giorni dalla risoluzione della
contestazione la
parte vittoriosa ad iniziare la normale procedura per
l’assegnazione,
provvedendo a rendere disponibile il nome per libera assegnazione
soltanto ove
tale parte non inizi la procedura entro trenta giorni dalla
risoluzione: vedi
regola 14.6).
f)
Va
però specificato che dette pronunce sono – al pari
di
ogni altra - provvisoriamente esecutive ex art. 282 c.p.c.,
sicché sia la
revoca, che la conseguente procedura di riassegnazione, dovranno essere
immediatamente attuate. Ciò, nonostante le regole di naming
(14.4 lett. c)
condizionino detta attuazione al passaggio in giudicato della pronuncia
dell’autorità giudiziaria, non potendo certo un
regolamento convenzionale
derogare ai principi generali del processo e porsi quale regola cogente
alternativa nei confronti dell’Autorità
Giudiziaria.
g)
In
relazione alla domanda accolta, Daniele Malavasi va poi come richiesto
dall’attrice genericamente condannato al risarcimento dei
danni nei confronti
dell’attrice, con rinvio della liquidazione a separato
giudizio. Non v’è
dubbio, infatti, che l’appropriazione – per quanto
detto illecita - del domain
name "bancoposta.it" da parte del Daniele Malavasi ha finora
impedito alle Poste Italiane di usufruire di un sito così
denominato, che
all’evidenza rappresenta il miglior veicolo informatico per
la promozione dei
servizi bancari dell’attrice, tanto per
l’identità fra il second level
domain ed il nome che raggruppa tali servizi, quanto per il
TLD di più
immediata riconoscibilità da parte dell’utenza
italiana, cui essa
principalmente si rivolge. Che il ritardo nell’utilizzo di
tale sito abbia
determinato nell’attrice una perdita di raccolta
pubblicitaria deve pertanto
considerarsi nozione assolutamente intuitiva; e tanto basta per la
pronuncia
qui richiesta, che invoca certezza soltanto sull’esistenza di
un danno
risarcibile, nella specie all’evidenza sussistente.
h)
L’istanza
di preventiva fissazione del risarcimento dovuto per future violazioni
dell’inibitoria qui disposta e per ritardo
nell’esecuzione della presente
sentenza non può invece accogliersi in relazione
all’inibitoria ed agli altri
provvedimenti conseguenti all’affermata condotta di
concorrenza sleale, poiché
il collegio condivide il prevalente orientamento giurisprudenziale (v.,
fra le
altre, Trib. Ancona, 12 aprile 1999; Trib. Milano, 21 novembre 1991 e
15
settembre 1988, Trib. Firenze, 11 dicembre 1990), secondo cui la norma
speciale
dell’art. 66 l.m. è insuscettibile di applicazione
estensiva, né d’altro canto
è dato rinvenire nel sistema civile una regola generale che
preveda sanzioni
monetarie per l’inosservanza di ordini giudiziali o per
l’inadempimento di
obblighi di fare, ovvero contempli forme generalizzate di anticipazione
del
risarcimento del danno.
i)
E’
il caso, infine – nell’esercizio del potere
discrezionale a tal fine assegnato al giudice tanto in punto an
che in
punto quomodo (vedi, ex multis,
Cass., sez. I, sent. n° 1982 del
11 febbraio 2003) - di accogliere anche l’istanza di
pubblicazione avanzata
dall’attrice ex art. 2600 c.c., da limitarsi peraltro ad un
estratto del
dispositivo della presente sentenza, a cura e spese del convenuto
Daniele
Malavasi, con le modalità indicate in dispositivo.
13)
Posizione di CNR e NA
a)
Nei confronti del
Consiglio Nazionale delle Ricerche e della Naming Authority Italiana,
l’attrice
ha in sede di precisazione delle conclusioni abbandonato la domanda
risarcitoria fondata su un loro asserito concorso
nell’illecito perpetrato da
Daniele Malavasi.
E’
il caso di precisare,
peraltro, che tale domanda non avrebbe potuto comunque trovare
accoglimento:
-nei
confronti del CNR –
quale gestore dell’attività di registrazione dei
nomi a dominio - poiché
(limitando l’esame alla fattispecie qui in considerazione)
non è ipotizzabile a
suo carico un dovere di diligenza esteso fino al controllo preventivo
delle
interferenze fra i domain names oggetto di
registrazione e gli altrui
segni proteggibili non ancora registrati quali marchi;
-
nei confronti della Naming
Authority – quale autore delle regole di assegnazione dei
nomi a dominio -
poiché del pari non può pretendersi che esso
introduca delle regole di
controllo preventivo delle interferenze suddette.
b)
Risultano invece
confermate le altre richieste ab initio avanzate
nei loro confronti,
rispetto alle quali va precisato che:
-
le richieste sub 2, c
ed e delle conclusioni riportate in epigrafe vanno
disattese, in quanto
volte ad ottenere pronunce (di accertamento e condanna) assolutamente
superflue, perché in sostanza ripetitive delle statuizioni
rese nella soluzione
del conflitto con il Daniele Malavasi, rispetto alle quali il Registro
(e non
anche la Naming Authority, che nulla c’entra) si pone quale
destinatario
esterno dell’esecuzione dei provvedimenti, tenuto alla loro
osservanza senza
alcuna necessità della sua partecipazione al giudizio;
-la
richiesta sub d,
volta ad ottenere la revoca d’ufficio
dell’assegnazione dei siti previe varie
indagini interne, è invece – prima ancora che
proposta in carenza di interesse,
visto che è stata contestualmente richiesta la revoca
giudiziaria - chiaramente
da rigettarsi per inammissibilità, perché il
giudice è chiamato a risolvere i
conflitti in base alle regole generali dell’ordinamento, ma
non può certo
riscrivere le regole interne di organizzazione degli enti convenuti
– in ciò si
risolve, in sostanza, la predetta richiesta -, che sono notoriamente a
base
esclusivamente privatistica.
14) Spese giudiziali
a)
L’attrice
va condannata all’integrale rimborso delle spese sopportate
dal CNR e dalla
Naming Authority per il presente giudizio – non essendosi
dette parti
costituite nella fase cautelare anteriore -, stante la sua completa
soccombenza
derivante da quanto detto al punto che precede;
b)
nel
rapporto fra attrice e Daniele Malavasi , la valutazione quantitativa
della
reciproca soccombenza va risolta in condanna del Daniele Malavasi al
rimborso
di un terzo delle spese sopportate da Poste Italiane per il giudizio
principale
e la fase cautelare ante causam (ivi compresa
quella di reclamo), con
compensazione delle spese residue, ivi comprese tutte quelle relative
ai
procedimenti incidentali in corso di causa.
c)
Tali
spese si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
Il
Tribunale di Modena,
definitivamente pronunciando nel giudizio introdotto da Poste Italiane
s.p.a. nei
confronti di Daniele Malavasi , della Naming Authority Italiana e del
Consiglio
Nazionale delle Ricerche con atto di citazione notificato in data 9-10
ottobre
2000, ogni altra istanza disattesa, così provvede:
1)
DICHIARA IMPROCEDIBILI le
contrapposte domande di contraffazione e nullità del marchio
"bancoposta" rispettivamente proposte dall’attrice Poste
Italiane
s.p.a. e dal convenuto Daniele Malavasi ;
2)
RIGETTA ogni domanda
proposta da Poste Italiane s.p.a. allo scopo di ottenere tutela in
relazione
alla registrazione, da parte di Daniele Malavasi, dei domain
names “raccomandata.it”
e “vaglia.it”;
DICHIARA,
conseguentemente,
l’immediata perdita d’efficacia del provvedimento
cautelare ante causam
ad essi riferito, dando atto che pertanto il Registro del ccTLD it
dovrà
provvedere all’immediato ripristino
dell’assegnazione di tali nomi a dominio in
capo a Daniele Malavasi ;
RIGETTA
la domanda di
risarcimento dei danni proposta da quest’ultimo;
3)
in parziale accoglimento
della domanda proposta da Poste Italiane s.p.a. allo scopo di ottenere
tutela
in relazione alla registrazione, da parte di Daniele Malavasi, del domain
name bancoposta.it
DICHIARA
che detta
registrazione costituisce atto di concorrenza sleale ex art. 2598
n° 1 c.c.;
INIBISCE,
pertanto, a Daniele
Malavasi ogni ulteriore utilizzo della locuzione "bancoposta" per
contraddistinguere proprie attività commerciali, ivi
compreso l’uso di tale
locuzione quale parte denominativa di siti internet;
REVOCA
la registrazione del
nome a dominio suddetto in capo al Daniele Malavasi, mediante ordine al
Registro di rimuovere dal Registro dei Nomi Assegnati (RNA)
l’assegnazione del
nome a dominio "bancoposta.it" in favore del Daniele Malavasi;
DA’
ATTO che tale nome a
dominio andrà dal Registro riassegnato secondo le regole
interne di naming;
SPECIFICA
che sia la revoca,
che la conseguente procedura di riassegnazione, dovranno essere
immediatamente
attuate, essendo la presente pronuncia provvisoriamente esecutiva;
CONDANNA
Daniele Malavasi al
risarcimento dei danni causati a Poste Italiane s.p.a. in dipendenza di
tale
condotta sleale, in misura da determinarsi in separato giudizio;
DISPONE
la pubblicazione del
dispositivo della presente sentenza, per estratto contenente
l’intestazione del
dispositivo e le statuizioni di cui ai punti 1, 2, 3, per una volta,
sulle
pagine nazionali del quotidiano "Corriere della Sera" e sulle pagine
della sezione relativa alla provincia di Modena del quotidiano "Il
Resto
del Carlino", su due colonne, a cura e spese di Daniele Malavasi ,
entro
sessanta giorni dalla data di pubblicazione della presente sentenza;
4)
dato atto che Poste
Italiane s.p.a. ha abbandonato la domanda risarcitoria originariamente
svolta
nei confronti della Naming Authority Italiana e del Consiglio Nazionale
delle
Ricerche;
RIGETTA
ogni ulteriore
domanda proposta da Poste Italiane nei loro confronti;
5)
CONDANNA Poste Italiane
s.p.a. al rimborso delle spese sopportate dalla Naming Authority
Italiana e dal
Consiglio Nazionale delle Ricerche per il presente giudizio, che
liquida:
-quanto
alla Naming Authority
Italiana in complessivi €.7.173,38 oltre spese generali ed
accessori dovuti per
legge, di cui €.410,00 per esborsi, €.1.763,38 per
diritti ed €.5.000,00 per
onorario;
-quanto
al Consiglio
Nazionale delle Ricerche in complessivi €. 6.711,69 oltre
spese prenotate a
debito del Campione Civile, di cui €. 2.011,69 per diritti ed
€ .4.700,00 per
onorario;
6)
CONDANNA Daniele Malavasi
al rimborso di un terzo delle spese sopportate da
Poste Italiane s.p.a. per il giudizio principale ed il procedimento
cautelare ante
causam (ivi compresa la fase di reclamo), quota che liquida
in complessivi
€.8.272,39 oltre spese generali ed accessori dovuti per legge,
di cui €. 910,82
per esborsi, €. 1.361,57 per diritti ed €. 6.000,00
per onorario;
DICHIARA
le spese residue del
giudizio principale e tutte quelle relative ai procedimenti incidentali
in
corso di causa compensate fra dette parti.
Interferenza
fra nome a dominio e marchio: il ruolo
del Registro.
1. I fatti ed i
provvedimenti cautelari –
2. La funzione del Registro e i suoi obblighi. – 3. La natura
delle regole di
naming.
1. I fatti ed i
provvedimenti cautelari
La
sentenza che si annota costituisce il
condivisibile e ben ponderato punto di arrivo di una complessa vicenda
iniziata
cinque anni fa, in un regime di Internet Governance diverso
dall’attuale. Tale
vicenda ha prodotto nel corso del suo svolgimento ben quattro
provvedimenti su
ricorsi cautelari; provvedimenti che
con la sentenza stessa contribuiscono a porre dei punti fermi nelle
posizioni e
nelle responsabilità dei soggetti coinvolti nelle
registrazioni dei nomi a
dominio.
La
vicenda, avendo avuto echi sulla stampa nazionale, è ormai
nota. Il
sig. Daniele Malavasi, titolare dell’impresa individuale
“Discovogue”,
aveva registrato i nomi a dominio
bancoposta.it, vaglia.it e raccomandata.it, ponendovi dei siti nei
quali si
trovavano, fra le altre cose, commenti in relazione ai servizi di posta
raccomandata, vaglia e bancoposta forniti dalle Poste italiane.
Queste
ultime, con ricorso in data 28 giugno 2000,
avevano chiesto al tribunale di Modena un provvedimento cautelare volto
ad
ottenere l’inibitoria nei confronti del Malavasi
all’utilizzo dei nomi
“bancoposta”, “vaglia” e
“raccomandata” e, più in generale, di
qualsiasi temine
comunque distintivo dell’immagine,
dell’attività, e i prodotti e dei servizi di
Poste Italiane S.p.A.
Nel
procedimento cautelare le Poste coinvolgevano anche il maintaner
dei domini in questione, il C.N.R., in quanto svolgente la funzione di
Registration
Authority per il ccTLD .it ,
e la Naming Authority, ente cui a quel tempo era ascrivibile la
formulazione
delle regole di naming sulla cui base i domini erano stati registrati .
Nei loro confronti era richiesta l’inibitoria dal compimento
di atti che
potessero agevolare l’asserito illecito posto in essere dal
Malavasi, con
ordine di impedire l’uso dei detti domini.
Con
provvedimento depositato il 29 luglio 2000, il Tribunale respingeva
il ricorso, osservando che i termini che le Poste ritenevano di propria
esclusiva pertinenza erano espressioni generiche che indicavano servizi
ed
attività, e come tali impossibilitati ad essere oggetto di
privativa .
Il
provvedimento di diniego veniva reclamato con successo dalle Poste
italiane. Con provvedimento dell’8 settembre 2000, in
accoglimento del ricorso,
veniva vietato al Malavasi l’impiego dei termini bancoposta,
vaglia
e raccomandata come nomi di dominio, con immediata
chiusura dei relativi
siti .
Le
Poste iniziavano quindi il giudizio di merito, chiedendo la conferma
delle ottenute inibitorie e la condanna di tutti i convenuti al
risarcimento
dei danni.
L’inizio
del giudizio non fermava però
l’attività cautelare delle parti.
Lo scarno dispositivo del provvedimento del collegio, che al di
là della mera
enunciazione del divieto all’uso dei nomi a dominio in
contestazione non
specificava le modalità di attuazione della decisione ,
costringeva il giudice della cautela ad un nuovo intervento nel quale
si
specificava che per chiusura dei siti doveva intendersi la revoca dei
relativi domain
names in capo al Malavasi ma non anche la contestuale
assegnazione degli
stessi alle Poste italiane, bensì la sospensione della loro
assegnazione
all’esito del giudizio di merito .
Ulteriori contrapposte richieste di modifica dei provvedimenti
cautelari
venivano presentate e respinte in corso di causa .
La
sentenza definitiva riscatta ampiamente le oscillazioni e le
incertezze dimostrate dal tribunale nella fase ante causam,
collocandosi
fra gli estremi di due provvedimenti cautelari di cui il primo aveva
negato
tutto alle Poste italiane, il secondo tutto aveva concesso.
L’ampia motivazione
– nella quale il
Tribunale di Modena rivela un approfondita e non comune conoscenza
degli
aspetti tecnici di internet ed in particolare della registrazione dei
nomi a
dominio – può considerarsi un utile punto
ricognitivo del percorso fatto sino
ad oggi dalla giurisprudenza per classificare il nome a dominio e
l’applicabilità ad esso della normativa sui marchi
e sulla concorrenza sleale .
In particolare, il Tribunale
conferma
l’appartenenza dei nomi a dominio alla categoria dei segni
distintivi, seguendo
l’ormai prevalente orientamento sia della giurisprudenza
che della dottrina ;
orientamento che ha avuto di recente l’avvallo del
legislatore con il nuovo
Codice della proprietà industriale recentemente promulgato
.
Con ciò
può quindi ritenersi
definitivamente tramontato il minoritario indirizzo giurisprudenziale
che
negava l’assimilabilità del nome a dominio con i
segni distintivi d’impresa ,
indirizzo peraltro contrastato anche dalla migliore dottrina .
Oltre
a ciò, la sentenza in esame mostra una non comune competenza
tecnica del giudicante nelle questioni sottopostegli e fornisce un
preciso
quadro sistematico delle posizioni e delle responsabilità
dei soggetti
coinvolti nella registrazione dei nomi a dominio. Cosa, questa,
particolarmente
interessante in un settore in cui la tendenza è spesso
quella di citare in
giudizio tutti i soggetti che intervengono nella registrazione del nome
a
dominio, anche se privi di alcuna legittimazione in relazione
all’illecito
perpetrato dall’assegnatario.
2.
La funzione del Registro ed i suoi obblighi.
Nel caso di specie, le Poste
italiane
avevano convenuto innanzi al giudice non solo colui che aveva
asseritamente
compiuto l’illecito consistente nella registrazione dei nomi
a dominio, ma
anche il maintainer ,
il registro, e financo l’ente preposto alla formulazione
delle regole di
naming, colpevole di non aver predisposto norme tali da impedire la
perpetrazione dell’illecito.
Le domande nei confronti di
tali
soggetti sono state giustamente respinte, con statuizioni che, in
relazione
alla posizione del Registro, appaiono particolarmente interessanti per
chiarirne il ruolo, sia sostanziale che processuale, nelle dispute
relative ai
nomi a dominio.
Per quanto attiene al ruolo
sostanziale,
la sentenza ha confermato che il Registro non ha alcun “dovere
di diligenza
esteso fino al controllo preventivo delle interferenze fra i domains
names
oggetto di registrazione e gli altrui segni altrui proteggibili non
ancora
registrati quali marchi” .
Se la prima parte della
statuizione
appare condivisibile, qualche perplessità desta la
specificazione finale della
frase, che, riferendosi esplicitamente ai segni altrui “non
ancora
registrati come marchi” potrebbe indurre qualcuno a
ritenere che il
Registro sia tenuto comunque a verificare che il dominio di cui gli si
chiede
la registrazione non sia un marchio già registrato.
Quest’ultima
interpretazione, pur
avendo l’appoggio di isolata giurisprudenza ,
non appare però condivisibile, in mancanza di una specifica
previsione
normativa che, al momento, non esiste .
Il Registro infatti svolge e deve svolgere soltanto la funzione tecnica
di
registrare – e quindi rendere visibile e raggiungibile su
Internet – un nome a
dominio. Ravvisare a suo carico un obbligo di controllo della
preesistenza di
un marchio registrato identico al nome a dominio di cui gli si chiede
la
registrazione significherebbe investirlo di potestà
pubbliche di controllo che
mal si conciliano con l’attività di natura
privatistica che svolge, e che
comunque andrebbero contro il generale principio che lascia al soggetto
titolare del diritto di privativa la facoltà e
l’onere di reagire alla lesione
del suo diritto.
Del resto, a tale conclusione
si giunge
per altra via anche seguendo il discorso della sentenza in esame,
secondo cui
il nome a dominio è assimilabile all’insegna, in
quanto “svolge
l’identica funzione di
contraddistinguere il luogo – virtuale – in cui
l’imprenditore offre i propri
prodotti o servizi al pubblico, consentendone al contempo il
reperimento e
l’individuazione rispetto ai concorrenti”.
Se dunque il nome a dominio è
assimilabile all’insegna, il Registro potrebbe essere
equiparato
all’elettricista che, su richiesta
dell’imprenditore, installa
l’insegna sulla vetrina del negozio e la collega alla
rete elettrica rendendola così visibile al pubblico.
Così come non appare
sostenibile che l’elettricista che
installa l’insegna sia tenuto a verificare che
essa non corrisponda ad
un marchio già registrato, così non appare
ipotizzabile che il Registro – che
in definitiva altro non fa che attivare nel DNS e rendere visibile il
nome di
dominio scelto dall’utente su Internet – sia tenuto
a verificare che esso non
leda diritti di privativa altrui .
Del resto, l’inesistenza di un obbligo in capo al Registro di
controllo
dell’interferenza dei nomi a dominio con i marchi
è sostenuta sia dalla
migliore dottrina
che dalla prevalente giurisprudenza .
Le conclusioni di cui sopra non
sembrano intaccate dalle recenti disposizioni processuali del codice
della
proprietà industriale, ed in particolare
dall’ambigua formulazione dell’art.
118, punto 6, il quale prevede che “la registrazione
di nome a dominio
aziendale concessa in violazione dell'articolo 22 o richiesta in mala
fede, può
essere, su domanda dell'avente diritto, revocata oppure a lui
trasferita da
parte dell'autorità di registrazione.”.
Al di là della
infelice formulazione,
che astrattamente potrebbe anche essere letta nel senso di attribuire
direttamente al Registro la potestà di valutare direttamente
le domande degli
aventi diritto e decidere sulla riassegnazione dei nomi a dominio, la
norma
deve essere interpretata come una conferma della necessità
che sia l’autorità
di registrazione ad effettuare le revoche e le riassegnazioni secondo
le norme
da essa previste.
Non solo infatti la norma in
questione
si trova nel capo relativo alla tutela giurisdizionale dei diritti di
proprietà
industriale, ma presuppone alle spalle un corpus di
norme procedurali
che esistono soltanto per i procedimenti innanzi al giudice e non certo
innanzi
al registro, che, fra l’altro, agisce comunque in regime di
diritto privato.
Andare di contrario avviso e
ritenere
che invece l’art. 118 del codice della proprietà
industriale affidi
direttamente al Registro il potere di valutare ed accogliere le domande
di
revoca o riassegnazione dei nomi a dominio significherebbe di fatto
costituire
un giudice speciale per
i nomi a
dominio, che in quanto tale sarebbe vietato dall’art. 102, II
comma della
costituzione .
E ciò a
prescindere dal fatto che l’art. 118 del codice della
proprietà industriale,
interpretato in tal senso, non potrebbe neppure avere applicazione
alcuna,
mancando qualsiasi
norma procedurale o
di attuazione.
Per quanto riguarda invece gli
aspetti
processuali, il Tribunale di Modena ha chiarito la inutilità
della citazione in
giudizio del Registro, che, al contrario, viene spesso coinvolto a
sproposito
in giudizi in cui si contesta la legittimità della
registrazione del nome a
dominio .
Sotto questo profilo, la
sentenza ha
ritenuto il Registro mero destinatario esterno della esecuzione dei
provvedimenti giudiziari, e come tale tenuto alla loro osservanza senza
necessità di partecipazione al giudizio. Statuizione questa
che, come appena visto,
appare anticipare quanto disposto dal codice della proprietà
industriale
all’art. 118 punto 6, nell’interpretazione
poc’anzi ritenuta migliore.
3.
La natura delle regole di naming
Nel respingere la domanda posta
nei
confronti della Naming Authority, colpevole secondo la ricorrente di
non aver
predisposto norme che imponessero al Registro di verificare che i nomi
a
dominio di cui è richiesta la registrazione non
interferissero con segni
distintivi altrui, la sentenza ha riconosciuto la piena autonomia,
sotto il
profilo privatistico, delle regole di naming.
Significativa, al riguardo, la
circostanza che il tribunale non abbia ritenuto procedere ad una
riassegnazione
giudiziale del nome a dominio “bancoposta.it” a
favore delle Poste italiane, ma
abbia statuito che il nome a dominio in questione debba essere
riassegnato
secondo le vigenti regole di naming in tema di soluzione della
contestazione .
La sentenza in esame
rappresenta quindi
un’autorevole avvallo del sistema della Internet Governance
italiana vigente
all’epoca dei fatti, sistema di cui è riconosciuta
la legittimità e l’autonomia
sotto il profilo privatistico .
Il mutamento intervenuto nel settore appena prima della decisione, con
l’assunzione da parte del Registro anche della funzione
normativa e la
creazione di una commissione consultiva interna deputata alla
formulazione
delle regole, non appare intaccare la validità dei principi
espressi dalla
sentenza .
Cristina
De Marzi